domenica, dicembre 24, 2023

[ Buon Natale soldato Ivan ]


Mio padre, che faceva l’operaio alla Ansaldo ed era comunista, sosteneva che Babbo Natale in realtà fosse un eroe della rivoluzione russa, una specie di ladro gentiluomo che rubava i giocattoli ai bambini ricchi per darli a tutti gli altri e, soprattutto, che non si chiamava Santa Klaus ma Santa Claus Kinski. Era convinto che anche Gesù Cristo fosse un rivoluzionario socialista “Il primo della storia”, diceva, ma che poi la chiesa ne aveva fatto un martire bigotto. In effetti, a ripensarci, l’impressione è che i regali venissero direttamente dal 1917, se chiedevi un trenino Lima, te ne arrivava puntualmente uno di legno, non elettrico, da spingere manualmente su un binario tondo facendo: “Ciuf ciuf” con la bocca. Ai desideratissimi soldatini Atlantic, invece, il Santa Claus Kinski rispondeva con il fuciliere Ivan, un soldato di latta dell’armata rossa che muoveva le gambe come se avesse due protesi alle ginocchia e solamente dopo trentadue giri di carica. Comunque tutto filò liscio almeno fino a quando il confronto con i regali dei compagni di classe diventò impietoso e imbarazzante. Così, l’immagine dell’eroe dei primi anni d’infanzia sbiadì rapidamente lasciando il posto a quella di un vecchio rincoglionito che ti lasciava sotto l’albero avanzi di magazzino rubati ai figli dello Zar Nicola. L’unico modo per salvarsi da questa mesta deriva sovietica era fuggire e chiedere asilo politico a casa di mio zio Salvatore, un democristiano tutto capitalismo e Ave Maria che aveva un’agenzia di pompe funebri e che, a Natale dell’anno precedente, era arrivato a regalare ai miei cugini una Fiat 500 in scala 1:2 col motore elettrico e le frecce intermittenti con cui giravano beati per il parco della loro villa appena fuori Milano. Il pomeriggio del 23 dicembre 1977, scappai di casa con un piccolo fagotto e bussai alla porta di mio zio che erano quasi le nove di sera. Mi accolsero a braccia aperte e con gli stessi occhi colmi di compassione con cui avrebbero guardato un profugo armeno. Dopo una cioccolata bollente, biscottini glassati e una sequela ininterrotta di:“Povero, piccolo, Marco”, mio zio alzò la cornetta, fece il numero di casa mia e disse: 

«Gaetà, smetti di cercare tuo figlio e lascia perdere i carabinieri. Sta qui da me. Sta bene»

«E che cazzo ci è venuto a fare lì scusa, non me lo poteva dire? A sua madre Carmelina le stava per venire un’angina per lo spavento»

«Ma sono cose di ragazzini Gaetà, è che te non capisci una beata minchia, sei un insensibile. Marco si è rotto le pallette di fare il figlio della rivoluzione russa e del tuo cavolo di Santa Claus Kinski. Questo vuole Big Jim, non la matrioska, l’hai capito o no?»

«E questo che minchia mi verrebbe a significare? A casa mia il natale lo decido io! O vuoi che se ne vada in giro vestito come un piccolo Agnelli, con l’orologio sopra il polsino, come fanno i figli tuoi?»

«È qui che ti sbagli Gaeta’! Il natale lo decide il mercato, non tu e manco Breznev o Fidel Castro.

Qui non stiamo mica a San Pietroburgo! Qui c’è il capitalismo, beato Cristo! Perché per fortuna, nel ‘quarantotto, le elezioni le abbiamo vinte noi! Stai crescendo quella povera creatura come un disadattato fuori dal tempo»

«Voi non avete vinto una beata minchia e te, meno di tutti, visto che nel quarantotto ti facevi a malapena le seghe! Quelle elezioni le avete truccate, lo sanno tutti! Altrimenti ora stareste tutti ai lavori forzati in Siberia!»

«È questo il vostro problema, voi comunisti vivete in un mondo tutto vostro, fate fantapolitica. Trovate una scusa per tutto, non sapete perdere e mentre vi scannate tra di voi, il mondo va avanti. Che poi, diciamocelo chiaramente: per voialtri la Russia è il paradiso terrestre a patto che ci vivano i russi! Se oggi te ne vai in giro con la tua macchinina millecento e ti fai le vacanzucce a Cattolica è anche grazie ai soldi americani del piano Marshall, bello mio»

«Ma questo con mio figlio che cazzo c’entra mo’?»

«C’entra che un giorno vi sveglierete come quel soldato giapponese nella foresta e scoprirete che tutti i bambini del mondo sono felici con il dolce forno e Cicciobbello! Quindi, i patti sono questi: domani sera venite tutti a cena qua, tu te ne stai buono e calmino senza fare i tuoi soliti comizi da sindacalista di ‘stocazzo, e quando apriamo i regali fai finta di essere contento almeno, e poi ti riporti a casa tuo figlio come se niente fosse»

«Che gli hai regalato, Salvo? Dimmi la verità…» Chiese mio padre con un filo di voce.

«Un carro armato americano a pedali, con tanto di elmetto e fucile mitragliatore. La liberazione del piccriddu, va’ festeggiata in modo adeguato, compagno Gaetano» Mio padre lo mandò a ‘fanculo proprio mentre suo fratello gli attaccava il telefono in faccia, sghignazzando. Alla cena del 24, mio padre non disse niente per tutta la sera.

Era talmente avvilito per la sconfitta che ingoiò senza accorgersene persino l’anguilla, che gli aveva sempre fatto schifo. E quando aprimmo i pacchi sotto un albero di Natale alto come un condominio a tre pani, mi accorsi che aveva le lacrime agli occhi. Non ho mai capito se fosse per la presa di coscienza che le cose non erano andate come sognava lui e che la dittatura del giocattolo proletario non sarebbe mai arrivata, oppure per aver perso il suo ruolo e quel tocco di magia e fascinazione che solo i padri hanno con i propri figli o se, in qualche modo, a forza di raccontarmela avesse finito per credere davvero alla storia di Santa Claus Kinski. Sì, perché l’espressione che gli vidi sulla faccia quella sera era la stessa identica, spiccicata, di ogni bambino nel momento in cui scopre che Babbo Natale non esiste. 
Comunque, da quel giorno, niente fu più come prima e dal Natale seguente aprimmo le porte di casa al mercato occidentale. Il capitalismo vinse la sua battaglia a colpi di bambole parlanti, pistole spaziali e caschi da astronauta. Quello che volevo dirvi, però, è che di quel carro armato a pedali che aveva calpestato il Natale bolscevico di mio padre, persi ben presto le tracce lasciate dai suoi cingoli di gomma per tutta casa.

Il fuciliere Ivan, invece, è ancora qui, sulla mia scrivania, proprio vicino a una foto di me e mio padre in vacanza in montagna. E per ricordarmi di lui, quando mi viene un poco di malinconia, mi basta dare trentadue giri di carica.

 


venerdì, luglio 09, 2021

[ 4745 ]











Ho amato per 13 anni la mia migliore amica e non gliel'ho mai detto. Che era la mia migliore amica, intendo, che la amavo l'ho detto subito, non avrei potuto fare altrimenti anche perché si vedeva lontano un miglio. E poi sono cose molto più facili da dire quelle, si sa. Poi c'è stato un bacio, mi pare. Dopo abbiamo fatto l'amore un bel po' di volte, abbiamo messo su casa come diceva lei, scelto i piatti, la tinta alle pareti e i mobili, poi sono nate Camilla e Greta ma non ricordo se in quest’ordine e allora abbiamo comprato una macchina più grande, io ho cambiato lavoro tre, quattro volte, lei colore dei capelli almeno una trentina, abbiamo litigato per un sacco di cose inutili, a me sono caduti i capelli e a lei sono venute delle rughette molto carine intorno agli occhi, io sono diventato un po' pigro, lei faceva disegni sempre molto più belli dei miei ma non sono mai stato invidioso, anzi, poi abbiamo fatto una ventina di viaggi molto belli, anche se a me all’inizio non andava mai troppo, che viaggiare mi stressa. Poi, un giorno, mentre stavamo seduti davanti a un caffè, se n'è andata. Cioè, non è che è morta, semplicemente si è dissolta, un attimo prima era lì che versava lo zucchero di canna nella tazzina e un attimo dopo non c'era più. Mi pare che stesse dicendo che non era colpa mia, che le dispiaceva, che certe cose succedono e basta, o qualcosa del genere, come se questo potesse consolarmi in qualche modo. Per un attimo ho pensato anche di essermi immaginato tutto, figlie comprese. Poi, sono rimasto da solo, ed è successo qualcosa di molto strano: è successo che ho dovuto imparare a smettere di amare, mio malgrado, un poco alla volta, un giorno alla volta, che era un po' come imparare di nuovo a respirare o camminare, se capite cosa intendo. E mentre lei era da qualche parte a ridere, mangiare, respirare o fare l'amore, io, stavo ancora fermo a quel cazzo di tavolo da caffè. Ma non era di questo che volevo parlarvi, perché alla fine, per quanto possa sembrare strano, il sesso e tutte quelle altre cose che mi sembravano imprescindibili nei miei giorni insieme, erano diventate improvvisamente dettagli sfocati.

E quindi è successo che mi mancava l’amica, invece, come l’aria. Perché a lei dicevo cose che alla donna con cui passavo le notti, non riuscivo a dire.
Ah, dimenticavo la cosa più importante: poi è successo anche che ho smesso di bere caffè.

giovedì, luglio 08, 2021

[ millecento ]


Con una macchina come questa, nel 1975, mio padre e mia madre mi portarono in Spagna. Un viaggio di qualche migliaio di chilometri con una roulotte Roller, attaccata con il gancio, a una media di novantacinque chilometri orari. Senza bancomat, senza telefonini, senza sapere lo spagnolo, soprattutto. Ma mio padre prima di partire per qualsiasi viaggio comprava dei vocabolari di; italiano – qualsiasi lingua al mondo. E la cosa bella era che riusciva a farsi capire. In Spagna fu facile, mettevamo la esse in fondo a qualsiasi parola e pareva funzionare. Lui guidava per ore, avrebbe potuto fare il camionista, quando era stanco si fermava, tirava giù i piedini della roulotte e ci mettevamo a dormire. Oppure mangiavamo. Dentro, c’erano un piano cottura e un lavandino con la pompa elettrica per lavare i piatti, mia madre riusciva a cucinare cose buonissime anche lì. Dentro la roulotte c’era tutto, anche il bagno, era una piccola casa bianca con le ruote e le strisce blu che attraversava l’Europa e io ero felice. Felice come non lo sono stato mai più. A Tarragona, mio padre passò sotto il ponte bassissimo di una ferrovia proprio durante il passaggio del treno e saltò via il cappellotto della roulotte. Me lo ricordo ancora, che bestemmiava, sdraiato di pancia sul tetto mentre riparava il guasto. Mio padre riparava tutto. Riparava anche me, qualche volta. Quando arrivammo a Barcellona ero emozionato e fradicio di sudore, anche se ricordo solo delle guglie altissime nel cielo azzurro, i poster e le foto di Dominguin su ogni muro libero, una donna molto magra che suonava le nacchere ballando il flamenco fuori da un locale e una ragazza con delle tette grandissime e le lentiggini che mi dava dei pizzichi sulle guance. Ero felice, sì. Senza telefono, senza bancomat, con la nostra Fiat millecento, nella casa con le ruote dove c’era tutto e la ragazza che mi pizzicava le guance. Forse è per questo che mi piacciono gli appartamenti piccoli. E le tette grandi, va da sé.


 

lunedì, gennaio 18, 2021

[ natale di seconda mano ]












Era la sera di Natale di quell’anno lì. Quello che nessuno osa nominare. Quello di merda, per intenderci. Mentre eravamo seduti a tavola, mesti, ma comunque motivati nel fare razzia di ogni ben di Dio commestibile e non, qualcuno suonò al citofono. Mio padre allora posò la forchetta nel piatto, si alzò e con il consueto garbo disse:
«E mo chi cazzo è quest’ora? Sarà mica il corriere amazon?» Poi prese la cornetta e disse:
«Sì, chi è?»
«Io»
«Io chi scusi?»
«Io, io»
«Senti se sei quello del quarto piano, ti ho già detto che le infiltrazioni non vengono da me ma da Pansacchi dell’interno dieci, che quello ci ha tre bagni! Ma poi ti pare l’ora di rompere i coglioni la sera di Natale?»
«Ma no, guardi, c’è un equivoco. Sono io, Babbo Natale»
«Babbo chi?»
«Natale»
«Cos’è uno scherzo del cazzo?»
«Ma no, apra che porto su i regali»
«Ma sono le otto, che orario sarebbe?»
«Eh, ma quest’anno con il nuovo DPCM il Natale è stato anticipato di tre ore, non lo sapeva?»
«No. Qui nessuno ci ha detto niente. Ma ora noi siamo a tavola, se lei entra con i regali ci rovina tutta la sorpresa, senza contare che mi si freddano le frittelle di broccolo»
«Sì, capisco, ma guardi è un momento difficile, non sa il casino che ho dovuto mettere in piedi per passare da una regione all’altra, i permessi, le autocertificazioni, lasciamo stare. Allora, mi apre adesso?»
«E ai bambini cosa dico?»
«Ah, già. Beh, dica quello che dicono tutti»
«E cioè?»
«Che babbo Natale non esiste. Ora sarebbe così gentile da aprire il portone che mi sto cagando sotto dal freddo?»
«Ma come freddo? Ma non vive in Lapponia lei?»
«Ma quale Lapponia, io ho il laboratorio vicino Macerata. Comunque io qui nel sacco c’ho un dolce forno, l’allegro chirurgo e forza quattro, apra ‘sto portone su’»
«Ma che è in ritardo con la consegna del 1976?»
«No, è che ho tutti gli gnomi in smart working e non ha idea di che cazzo di regali sono usciti fuori. Ma mi apre o no?»
«Ma che apro e apro! Mio figlio ha chiesto la playstation 5 e mi presento con l’allegro chirurgo?»
«Guardi le dico solo che uno di Pizzo Calabro aveva chiesto un iPad e gli è arrivato il libro di Bruno Vespa. A lei non è andata poi così male in fondo. Ora apra o do i suoi regali all’orfanotrofio di Gualdo Tadino»
Quando mio padre aprì la porta, sul pianerottolo, non c’era nessuno. Allora raccolse i pacchi appoggiati sullo zerbino e li portò dentro. Io e mia sorella dopo un iniziale smarrimento fatto di pianti isterici e crisi epilettiche a scopo punitivo, ci rassegnammo e passammo la serata giocando a forza quattro, tirando fuori femori di plastica dalla gamba del tizio sorridente dell’allegro chirurgo e cuocendo deformi crostatine con la marmellata. Fu
divertente
in fondo. Mio padre, invece, continuò a ripetere per tutta le feste che più ci pensava e più si convinceva che Babbo Natale aveva la voce spiccicata a quella di Pansacchi dell’interno 10

giovedì, luglio 30, 2020

[ buon ferragosto ispettore stracchino ]





«BANG!»
All’interfono del commissariato di Rocca Volturno, la voce dell’ l’agente scelto Crapanzano disse: «Ispettò, tutto bene?»
E l’interfono rispose: «Crapanzà, tutto bene, esperimenti balistici, però se ti riesce, fatti i cazzi tuoi ogni tanto.»


Per l’agente scelto Crapanzano Saro, tra il colpo d’arma da fuoco che aveva appena sentito e la parola “balistica” non c’era nessuna correlazione o attinenza particolare, però il: “Fatti i cazzi tuoi” ebbe l’effetto sperato e chiuse la comunicazione tornando alla lettura di Femmine Bollenti Pocket di luglio 1983, un classico. L’ispettore Stracchino invece, guardava la testa di Bakari, o quello che ne restava, saltata in aria mentre puliva la pistola durante l’interrogatorio. Bakari lo avevano arrestato dopo un segnalazione da parte di alcuni bagnanti - ligi al dovere e avversi alla contraffazione del marchio per motivi religiosi- sul lungomare di Rocca Volturno, mentre vendeva una sacca sportiva di marca “Sadida” alla cifra da capogiro di 15 euro. Al seguito furono trovate anche scarpe “Nikes”, felpe “Robe di Carpa” e t-shirt “Lafroste”. Roba di prima scelta insomma.

Il poveretto, sottobraccio a due agenti, se n’era venuto in commissariato buono buono, con la serena consapevolezza di chi sa che quella sarebbe stata solo l’ultima di una infinita serie di giornate di merda. E infatti.

La testa di Bakari era ormai un guazzetto rosso pompeiano e molto gestuale , un po’ come quando all’ispettore gli esplose la bottiglia di barolo a natale del ‘77, solo che stavolta ci stava un morto. Solo che da dietro la poltrona, con quel taglio di luce e la meraviglia matematica di alcune traiettorie casuali degli schizzi di sangue, il risultato non aveva nulla da invidiare ad alcune delle opere migliori di Jackson Pollock. Mo’ però, il fatto era che tecnicamente aveva ammazzato un uomo nel suo ufficio e se pure il poveraccio era in stato di arresto per commercio di borse contraffatte, nessun documento, nessun permesso di soggiorno - che magari nemmeno Bakari si chiamava - e se pure il colpo era partito in modo del tutto involontario, la cosa in effetti avrebbe potuto procurargli alcune rotture di cazzo da lì in avanti e a tre anni dalla pensione, si disse che non era proprio il caso.
Che poi a Rocca Volturno non succedeva mai niente, in effetti e all’ipsettore Stracchino la cosa andava pure bene, il tasso di criminalità annuale era il più basso del mondo conosciuto, 335 abitanti, per lo più pensionati, il resto erano tutti in Svizzera o in Germania. L’ultimo episodio di criminalità era stato quello del ragionier Ragonese, uno che aveva gestito i soldi di una ventina di poveracci in “Investimenti sicuri” e che adesso se ne stava da qualche parte immerso nell’olio di cocco, bevendo cuba libre dalla mattina alla sera. Insomma, un paradiso in pratica, meta ambitissima anche perché c’era il sole, c’era il mare, e soprattutto non c’era un cazzo da fare, e scusatemi la rima.

La fortuna volle che al 14 di agosto, a parte lui e l’agente scelto Crapanzano, il commissariato di Rocca Volturno fosse praticamente deserto. L’agente Lo Turco era a fare i fanghi, che dopo una vacanza in thailandia, se ne era tornato a casa con delle macchie sulla pelle che sembrava una fungaia, il vice sovrintendente Proietti era in ferie a ingozzarsi di cocomero e melanzane alla parmigiana sulla spiaggia di Sabaudia e l’agente Sannazzaro era in permesso, che alla moglie si erano rotte le acque e a lui i coglioni invece, dato che la signora Sannazzaro aveva sfornato la bellezza di tredici figli in sedici anni, per una scarsa abitudine all’uso degli anticoncezionali e per un’attitudine naturale alle famiglie numerose, diciamo e quindi ‘sta rottura delle acque era diventata l’esondazione del Rio delle Amazzoni.
Mentre si addannava, strusciando con uno straccio contro le macchie rosso scuro sparse praticamente ovunque sulla parete di fronte alla scrivania, si rese conto bestemmiando, che lo sgrassatore del discount all’angolo, col sangue, funzionava poco e niente. Alla fine mentre strizzava la camicia nel lavandino del bagno, decise di appenderci davanti il planisfero in scala 1:1 che gli aveva regalato il Sindaco Barrese per natale. Una latta di tinta lavabile avrebbe fatto il resto. Mentre copriva il Pollock in piedi su una scala, Il servizio al tg di teleonda delle dodici mostrava l’ennesimo sbarco di clandestini a punta rossa. Di trecento, ne erano arrivati vivi la metà, gli altri erano morti di sete o buttati in mare dopo essere stati ammazzati di botte o a revolverate dagli scafisti, che nel frattempo si erano resi irreperibili. Con quelle correnti per ripescarli tutti, ci sarebbero volute settimane, forse mesi.
Fu allora che all’ispettore Stracchino venne un sorriso girocollo, mentre sfilava il bossolo conficcato nel muro tra la foto del presidente Bolchi Randazzo Paolella e il calendario delle forze armate, si disse: “Ma un extracomunitario senza permesso e documenti, chi cazzo lo cerca? Nessuno. E soprattutto, se sparisce, chi cazzo lo trova? Nessuno. E ammesso che qualcuno lo trovi, chi cazzo lo riconosce uno senza faccia? E la risposta fu sempre nessuno”. Ecco, Il piano era un poco rischioso, ma tutto sommato semplice. Per attuarlo al meglio gli servivano: Coperte, canne da pesca, bigattini, sangue freddo e una discreta dose di culo. Chiamò all’interfono l’agente Crapanzano usando parole suadenti e dall’alto potere persuasivo:

«Crapanzà, per le prossime tre ore non voglio rotture di minchia, me ne vado a pesca e se chiama il vicequestore digli che sono passato a miglior vita, per noia»

«Agli ordini!» Rispose Crapanzano mettendosi sull’attenti - che Crapanzano era uno serio e si metteva sull’attenti pure al Telefono- un attimo prima di tornare alla lettura di un mirabile pezzo dal titolo:”La calda lingua di Samantah” con l’acca finale.

L’ispettore Stracchino, suo malgrado, la seconda telefonata la fece alla moglie.
« Rosina, guarda che oggi non torno a casa, mi sa che me ne vado a pesca»
Ma quella, Rosina, era una donna di poche parole e aveva riattaccato senza fiatare né dire a, anche perché se ne stava a cavalcioni dell’architetto Giarrusso, vedovo in seconde nozze, bisognoso di affetto e consolazione e che del lutto ci aveva un’idea tutta sua, ma questa, è un’altra storia.
Stracchino passò dall’uscita sul retro, aveva avvolto il poveraccio in alcune coperte con lo stemma della polizia di stato e da cui uscivano i piedi con due scarpe di colore diverso, poi lo aveva trascinato fino al parcheggio deserto del commissariato dove aveva lasciato l’auto e si stupì di quanto fosse capiente il cofano della sua Mazda 1100 ecologica, dato che il povero Bakari ci entrò tutto intero e non gli dovette nemmeno piegare le ginocchia. In realtà il Bakari era alto uno e cinquantatré, ma nella fretta, il dettaglio era sfuggito ai più. Dopo essersi assicurato che da fuori non si vedesse nulla, chiuse il cofano, si infilò in macchina, girò la chiave, aggiustò lo specchietto retrovisore e partì. Avrebbe fatto finta di andare a pesca, che all’ispettore Stracchino piaceva la pesca, nessuno si sarebbe quindi stupito nel vederlo farsi un giretto con il suo cabinato con motore Yamaha da 700 cc. E per rendere più credibile la cosa fece uscire due canne in bella posa dal finestrino del passeggero, con filo di nylon e galleggianti al vento, come fossero due bandiere. La sorte giocò ancora a suo favore, quando davanti all’unico bar di Rocca Volturno incontrò il notaio Parracciani e l’avvocato Stancanelli sottobraccio dopo l’aperitivo, a parlare sicuramente di sticchio o di calcio.

«Andiamo a pesca ispettore?»
«Notaio Parracciani e che vogliamo passare ferragosto senza mangiarci un paio di orate al forno con le patate?»
«Non sia mai, ispettore, non sia mai!»

Poi fece un cenno di saluto col capo e girò verso il molo, dove teneva attraccato il suo cabinato. Come previsto, il molo era deserto e anche al gabbiotto con la sbarra non c’era anima viva, stavano tutti persi nei preparativi di piatti mortali e cucinati con l’olio dei motori a quattro tempi o a dormire spiaggiati come oloturie in tutti gli stabilimenti e le calette intorno al paese. Alzò la sbarra e si fermò con l’auto proprio davanti alla barca, trascinò il corpo di Bakari fino alla cabina e lo sistemò con cura sotto una panca insieme alla pompa di sentina, due materassini e alcune fiocine arrugginite, con cui di tanto in tanto aveva giocato a fare il subacqueo. Prese le canne da pesca, staccò il sacchetto coi vermi dallo specchietto dell’auto e guardò oltre il porto. Il mare era una tavola. Con un poco di culo, pensò, avrebbe avuto anche il tempo per pescare veramente. Accese il motore e guardò del petrolio galleggiare intorno allo scarico con bolle color arcobaleno, tolse la gomena dall’attracco e la barca cominciò a muoversi lentamente.

A largo di Cala scura, Il tonfo nell’acqua parve quello dei sassi pesanti che i ragazzini per gioco, buttano dal molo. Solo che quello non era un sasso, quello era Bakari Kwame, 33 anni, ingegnere edile, scappato dalla guerra civile dopo aver visto suo fratello ammazzato a colpi di machete e sua moglie stuprata da una decina di animali con la divisa militare, animali che dopo hanno deciso di giocare a calcio con la sua testa, animali che fino a qualche mese prima erano i suoi vicini di casa, quelli che lavoravano con lui, che andavano a scuola con i suoi figli. Insomma Bakari Kwame era uno che aveva attraversato un mare sconosciuto di notte, che aveva preso le botte perché i soldi per arrivare erano troppo pochi e tante altre ancora da quelli che lo aspettavano a riva a braccia aperte e che alla fine muore per mano dell’ispettore Stracchino Giacomo, anni 63, a causa di un colpo accidentale partito dalla sua Beretta semiautomatica M51 di ordinanza, mentre nel pieno adempimento delle sue funzioni la puliva con cura e olio di gomito, anche se non sparava più dal 1978.
Comunque entro qualche giorno la corda con la pietra che aveva malamente legata al piede del poveraccio avrebbe ceduto, sarebbe riaffiorato e la corrente lo avrebbe portato inesorabilmente verso Punta rossa, diventando l’ennesimo morto senza nome e senza faccia, da accollare agli scafisti. E poi, per non dare troppo nell’occhio, si mise a pescare. Mentre il piccolo cabinato si muoveva appena, con la canna in mano e un cappello di paglia infilato in testa, si disse che aveva fatto bene così, che era stato un incidente, che non era giusto che capitasse ma che ormai era capitato, che nessun giudice al mondo avrebbe creduto all’incidente e poi giù campagne mediatiche sui mezzi d’informazione e i social network, vedeva già una sua foto orrenda dietro al tizio del telegiornale e titoli roboanti sul poliziotto col grilletto facile, sull’ennesimo omicidio in un commissariato per coprire chissà che cosa, lo sbirro xenofobo, lo sbirro fascista e una sfilza infinita di precedenti e foto e indizi, congetture, prove false, scoop montati ad arte, criminologi imbolsiti e opinioniste dalle tette rifatte a dare giudizi del cazzo atti a smerdare le forze dell’ordine e tutti quei bravi poliziotti come lui che per questo paese avevano dato il culo. Vabbè forse il culo era una metafora un tantino esagerata, ma insomma quarant’anni di onorata carriera, con uno stato di servizio come il suo, erano pur sempre qualcosa no? Eccheccazzo.
Si fermò un attimo e si sorprese del fatto che stava gridando da solo in mezzo allo Ionio col dito puntato verso l’alto. Un autentico comizio a vongole veraci, purpi e fasolari. Riprese quindi con un tono sommesso e conciliante, più consono ad un rappresentante delle istituzioni di una grande democrazia, bisbigliando: «Se te ne stavi a casa tua, invece di venire qui a rompere i coglioni…». La canna si piegò improvvisamente in avanti, la prima delle due orate della giornata, aveva abboccato. 

Appena mise piede sul molo squillò il cellulare, era l’agente Sannazzaro. Sua moglie aveva avuto un figlio maschio.
« Mi sarei permesso di chiamarlo Giacomo, proprio come voi, Ispettore»
«E grazie Sannazzà, sono onorato, congratulazioni a te e alla tua signora»

Attaccò e pensò tra sé e sé, con un brivido, che ci voleva un gran coraggio a far nascere un figlio in un mondo di merda come quello. Poi guardò nel secchio che teneva in mano, e si consolò pensando che per cena, almeno, avrebbe mangiato pesce.

giovedì, luglio 02, 2020

[101 modi per farla finita a luglio senza rompere il cazzo al prossimo]








UNO

Stare con la testa appoggiata allo sportello del forno aperto è scomodissimo, e quindi no, che io già ci ho la cervicale e poi mi viene il mal di testa. Il Gas puzza comunque, e costa pure. Di gettarmi nel vuoto non ne ho punto voglia, soffro di vertigini, poi ci vuole troppo coraggio. La pistola mi sporca tutta la parete che l’ho appena fatta imbiancare e quindi direi di no, ma, cioè, la cosa in qualche modo la devo affrontare, trovare un modo decente, magari i barbiturici come le grandi dive, eh? Che ne dite? Comunque il fatto è che la depressione non conosce stagioni, gli amici si. Chiamo Paolo mentre sto in piedi sullo sgabello e cerco di sistemare alla bene e meglio la corda al gancio del lampadario calcolando le misure giuste per non sfracellarmi al suolo inutilmente:

-Pa’ sono io, avevo bisogno di parlarti, ci vediamo?
-No ciccio, sto a Ginostra e stiamo scappando con un gommone che il vulcano è attivo e non voglio fare la fine di quei tizi a Pompei fermi come statue.
-Si, capisco, è che è un momentaccio sai, il lato oscuro che prende il sopravvento, presagi oscuri, non so se hai presente, sto pensando a gesti estremi e mi scade anche l’assicurazione della panda.
-Ciccio, te il lato oscuro non ce l’hai, senza contare che alla luce di quello chiaro non vedi un cazzo lo stesso, se vuoi fare la fine di Jim Morrison o di Hendrix devi almeno prima farti una pera, e te non ti sei mai fatto manco una canna in vita tua. Questo è il solito cambio di stagione dammi retta, tu soffri le mezze stagioni e le mezze porzioni, quindi fa una cosa, fatti una frittura di pesce a Nettuno e una femmina anche, che sarebbe meglio. Mo ti saluto che piovono lapilli che è una bellezza.

Mentre progetto di tagliarmi le vene in una vasca con acqua e ghiaccio, prendo in mano il telefonino e faccio il numero di Simona, l’amica di sempre, nella speranza di un’ultima calda spiaggia amichevole e salvifica.
-Simo, ciao sono io, senti perché stasera non ci prendiamo qualcosa? Sai sto un po’ giù, ho ricominciato ad oliare la pistola e a parlare con le foto della mia ex che ha sposato un proctologo tre settimane dopo avermi lasciato.

-Scusami ciccio ma non posso, sono a Porto Ercole e sto scegliendo delle infradito per la festa in piscina di stasera e sono indecisissima tra un rosa e un carta da zucchero, ma il rosa mi sbatte un po’, magari potrei metterne una di un colore e una di un altro, che ne dici? E poi qui fa quarantadue gradi all’ombra.
-Anche qui Simo. Sto male.
-Si, ma te hai l’aria condizionata, io qui il massimo che posso fare è un bagno a largo, non ti lamentare. Poi te l’ho detto migliaia di volte, questa cosa della tua ex non è amore, è una malattia, te non stai male, te vuoi stare male, capisci la sottile differenza? Lo dice anche il mio psicologo, dopo tre anni non è amore, è patologia.
-Quindi?
-Quindi vai in analisi! Te lo dico da una vita.
-Simo, Tu vai in analisi da dodici anni e gli lasci 90 euro a seduta eppure continui a fare l’amante di un uomo sposato. Piuttosto, vi vedete questa estate?
-No, sai, il bambino ancora non è pronto…
-Ma se suo figlio ha 35 anni.
-Che c’entra, certi traumi non si superano facilmente, e tu lo sai bene… bell’amico che sei invece di supportarmi mi ferisci gratuitamente. Vado a farmi un bagno, te divertirti eh.
-Grazie Sì, mi sei stata molto utile.

Mentre attacco il telefono stappo la vasca che ormai aveva cominciato a traboccare, ripongo le lamette nell’astuccio del rasoio e penso che senza gli amici non saremmo niente, barchette senz’ancora in un mare in tempesta, viaggiatori senza bussola. Avere punti di riferimento ci rimette sulla giusta rotta, sempre. Guardo il display del telefono e faccio un numero:

-Pronto? Gino al porto? Vorrei prenotare un tavolo per stasera se possibile, si, si per due, otto e mezza, perfetto.

Mentre pregusto la frittura di pesce e il vino bianco gelato, apro il giornale di lunedì e comincio la ricerca dell’altra metà del tavolo da: Samantha, 35 anni, capelli rossi, massima pulizia, no perditempo...

mercoledì, giugno 17, 2020

[ alla carta ]












Mi versi il vino e dici: 

«Smettila»

«Smettila cosa?»

«Di fare quella cosa, il rumore»

«Ma di che parli?»

«Il rumore che fai mentre mangi. È stata una delle prime cose che mi ha fatto capire che era finita»

«Perché che rumore faccio? Mangio a bocca chiusa mi pare»

«Trascini il cibo con la forchetta spostandolo da una parte all’altra del piatto come in certi film del cazzo americani, mi si chiude lo stomaco quando lo sento, non lo sopporto»

«Ci stiamo lasciando per il rumore di una forchetta?»

«Si, anche»

Ecco, non bisognerebbe mai andare fuori stagione nei posti che ami, o che hai amato, men che meno quelli delle prime volte. Hanno quell’atmosfera decadente e abbandonata che non te li fa riconoscere. Per dire, anche il cameriere sembra diverso oggi. I quadri alle pareti perdono colore, persino i piatti sembrano avere poco sapore, come tutte le cose che finiscono. 

«E il sesso?» chiedo.

«Una piacevole incombenza, a volte. Più spesso un obbligo, il prezzo congruo da pagare.»

«Il prezzo per cosa?»

«Per non stare da sola. Essere in due è stato molto consolatorio, come per te ingozzarti di cibo, per dire.»

«Ma è diverso, Io non ho paura di stare da solo. Io mangio perché sto da solo pure quando ci sei. Non è la stessa cosa.»

«Dici di no?»

«Dico che tu non sai stare da sola e pur di non affrontare questa paura, stai anche con me, che di fondo non ti piaccio. La coesistenza diventa un prezzo abbordabile, sono parole tue»

«E tu invece?»

«Io mi ingozzo perché vorrei che mi amassi quanto ti amo io, e per superare il fatto che non è così mi consolo mangiando, anche»

«Questo ti rende migliore di me?»

«No, che c’entra, non è una questione di merito. Forse mi rende solo un pelo più triste, e più grasso»

«E poi cosa significa, anche? Cos’altro fai?»

«Ricordo, per esempio. Ricordo tutto, tu no. Va detto che i momenti buoni sono stati talmente pochi che non è che serva chissà quale attitudine alla memoria, però lo faccio»

«Nemmeno all’inizio? Abbiamo avuto dei bei momenti, ne sono sicura. Quelli per esempio li ricordo, come quella volta al lago, tenevo la testa sul tuo petto e tu mi accarezzavi i capelli»

«È stato uno dei pochi momenti in cui ho creduto che mi amassi, pensa»

«Non credo di averti mai amato. Ti ho voluto bene, questo sì. Anzi sono sicura di averti stimato una volta, ma eri voltato e non ti sei accorto».

Il conto è scritto a penna su un pezzo di carta strappato dalla tovaglia. Sul tavolo restano una bustina di zucchero vuota per metà, la targhetta staccata della minerale e la tazzina del caffè con le tue labbra stampate sopra. Pago per entrambi e controvoglia, a conferma del fatto che due solitudini non fanno una compagnia, nemmeno quando sono sedute allo stesso tavolo.