mercoledì, gennaio 31, 2007

il saluto nel cappello


Dave Mckean

Avevo un gatto a Costantinopoli, col pelo liscio come un uovo, impagliato di vento e di fusa. Io pedalo sott'acqua, con i polmoni nel pianto, tu ascolti il male nelle conchiglie, cerchi di sabbia con un ramo mancino e allora impreco invano poveri cristi e sante madonne. Stavo in ginocchio, all'altezza del tuo perdono da prendere per i fianchi e scuotere come un anfora asciutta. Il gatto ha il pelo rosso e insegue la ballerina del carillon, in cerci concentrici, fino a sparire. I peccati dentro un saluto in un cappello, tu vestita di ciondoli e anelli che sali e scendi sui dubbi e sul mio ansimare clandestino. Il gatto serpeggia le caviglie di un tavolo apparecchiato, i resti di un pasto infame, io che inghiotto il tuo anello per sempre, mentre un grammofono gracchia parole come zolle, parole con le costole aperte come un ciborio, mangiatene pure. Il gatto sogna a piccoli scatti impigliato di vento e di sonno.

sabato, gennaio 27, 2007

la leggenda di luca calante



giornata della memoria.

24 Aprile 1945.
Il tenente con la bestemmia sul berretto, zuppo di pioggia nera, aveva detto piano “Dieci di voi per ognuno di noi” poi aveva sorriso dai lati della bocca che piegavano in basso, come i vigliacchi. Il prete, lo aveva guardato in faccia e poi aveva chiesto “Lei crede in Dio?” “Certamente” rispose con la bocca che sapeva di morte. Il Prete si fece il segno della croce e poi gli sputò in faccia. Fu il primo a morire inginocchiato nel fango, senza pregare, perché non ce ne era il tempo, il tempo di un buco, un buco nella testa. La testa continuò a fissarlo negli occhi,il tenente la tirò via con un calcio e rise, con quella faccia da iena, con quella risata da iena, poi ,raggiunse il suo branco e li annusò uno per uno. Li radunarono tutti nella piazza del paese, il campanile piegava a destra e la pietra veniva giù insieme all’acqua nera. Il tenente con la faccia da iena annusò l’aria e leccò via alcune gocce dalla falda del berretto. “La sente la paura?” chiese al terzo della fila che la paura l’aveva già ucciso e stava in piedi solo perché era stretto tra le spalle degli altri, negli occhi, un attimo prima, qualcuno giurò di aver visto un campo di grano e una fetta di pane e zucchero. “E’ questa puzza la paura, ed io non posso farne a meno, vivo per questo.” Qualcuno si teneva per mano, qualcuno piangeva, un uomo era perfino svenuto mischiando l’orina alla pioggia e sussurrando “Mamma” perché quando sai che stai per morire chiami tua madre. L’avorio dei denti gialli tintinnava nelle risate sporche, cinquanta vite senza vita, solo respiro. I colpi arrivarono a poca distanza l’uno dall’altro, le bocche nel fango, sulle scarpe, le braccia dietro la schiena. Pochi minuti poca terra, il tempo che serve a morire e quello per scavare. “Chi piange adesso?” pensò la iena col berretto uncinato tirandosi via le zecche con i canini. Era un pianto dalla gola, nella terra, vibrava nello stomaco fino all’inguine, fino a farti piegare le gambe. “Chi piange? Chi ha paura, Chi?” sibilò con la lingua tra i denti. Dal cumulo di corpi, dalle orbite vuote, dalla dignità violata tra le gambe, arrivava un pianto, un pianto come un grido. La iena lo vide uscire dal groviglio di viscere, era ancora li, tra le gambe di Marta, la puttana del paese, un bambino, la vita e la morte annodate allo stesso cordone. Lo tirò su leggero come un respiro, sporco di sangue e di pioggia, lo fissò per un attimo e lo annusò. Il bambino smise di piangere. Lo annusò ancora, e ancora, e ancora. Minuti lunghi come una canzone, per cercare quell’odore di cui aveva bisogno, che gli serviva per vivere, l’odore della paura.


Dicevano che nella notte s’era sparato nella testa, con la divisa indosso, il pelo lisciato, le medaglie dei morti e della vergogna appuntate vicino a quel cuore di iena. Il sangue sul muro sembrava una medusa o nebulose rosse. A liberarci sarebbero venuti poche settimane dopo, la ritirata aveva lasciato poche cose, quella macchia di sangue sul muro, armi in un magazzino, qualche rotolo di amlire e 50 croci di legno nel campo del notaio Graziani, che tanto era morto con loro, un silenzio che avrebbe accompagnato gli sguardi bassi per troppo tempo. Io sono stato cresciuto da mia sorella che s’era nascosta nella latrina tra le vacche. Che mia madre era una puttana l’ho saputo a dieci anni, così come che la vita me l’ha data morendo. Che mio padre era chiunque l’ho capito un minuto dopo. Mi chiamo Luca e non ho paura.


lunedì, gennaio 22, 2007

lumière (1/2)


Se ci fosse il buio, sulle vostre bocche aperte si consumerebbe il mio trionfo, nella penombra, nei riflessi della sorpresa, oltre il raso delle tende o nei sobbalzi soffocati nel velluto. La polvere, nella danza delle ombre cinesi sembrerebbe neve; avrei le vostre anime un fotogramma alla volta, io, vi ho rubato tutto, ogni cosa, col mio raggiro a manovella. La bugia nel disco di una lente, un fascio di luce, e la luna non è stata mai così vicina, allora lo vedrei, lo stupore freddo sulle vostre nuche. Sono l'affabulatore muto, l'uomo che guarda il mondo dietro un pezzo di vetro, con un occhio chiuso, uno che suona il rag time. Se solo ci fosse il buio, allora forse capiresti amore mio, che l'illusione è solamente la menzogna in arte varia, la nostalgia dell'inganno dopo i titoli di coda, e che io, t'ho amata come ho potuto, in bianco e nero.



a te.

giovedì, gennaio 18, 2007

cinque cose


Non amo le catene, e di me in effetti, non c'è molto da sapere. Questa che segue quindi, non è una parabola sulla (mia) normalità, ma una normale parabola in cinque punti. Mi verrebbe da aggiungere fatevi i cazzi vostri, ma lei si offenderebbe, e poi diciamolo, il voyeurismo cieco dei bloggers va sedato, dissetato, o dissestato. Bah!, Impiccioni.

io porto fuori il mio cane Agamennone ogni mattina alle sei meno un quarto perché lui deve pisciare, possibilmente prima di me, ai bagni pubblici di Via Pablo Rebelot (statista berbero), quelli con la scritta di vernice rossa “Cinzia Torrisi troia”, ma il mio mio cane è basso, e badate bene non un bassotto, è solo basso, non ditegli bassotto che si incazza come una bestia, per cui, non arrivando sulla tazza mi piscia immancabilmente sul risvolto dei pantaloni. Questo faccio ogni santa mattina prima di ricordarmi che io non ho un cane.

la mia posizione sessuale preferita è “il goniometro francese”, per effettuarla al meglio sono necessari nell'ordine: un geometra nel raggio di due metri, la erre moscia, una planimetria della vostra compagna scala 1:1 e un film porno in dvd dal titolo “Angoli eretti” o anche “Siliconati Coseni ” ma io consiglio sempre “Leccami l'ipotenusa Vs. Ortogoanali”. Ho un buon rapporto con il mio corpo purché non ci si trovi entrambi nella stessa stanza, e a differenza di tutti i primati (compreso il lemure) non riconosco la mia immagine riflessa.

el tempo libero amo rincorrere dei lama vestito da sacerdote incas, ma più spesso cerco di entrare nella mia cinquecento dai deflettori, oppure, se l'umore mi aiuta trovo irresistibile disquisire di matematica pura con un pastore uzbeko e le scarpe strette. Ho anche un vero hobby, costruisco modelli in scala di perplessità d'epoca, e li indosso solo nelle grandi occasioni, ne avevo uno meraviglioso il giorno del suo matrimonio.

Sono pigro, indolente e svogliato. Questo, mi ha portato negli anni a non avere una coscienza, pazienza, a non lavarmi troppo, a non rispondere ai testimoni di geova, a non amare nessuno, a non essere mai stato ad Abbiate grasso, ad avere del grasso, a non temperare le matite, a non fare sesso con estranei, a radermi ogni quindici giorni, a mangiare cibi scaduti, a leggere poco, scrivere meno, a non diventare Andrea Pazienza, a non accordare il mio pianoforte, a salutare con la sinistra, ad indicare con un cenno del capo, a non rimettere mai gli orologi, ad invecchiare male, ma facendo finta di niente.

amo far ridere chi amo.
Chiamo far ridere chi chiamo, amo far ridere chi chiamo, chiamo far ridere chi amo.



martedì, gennaio 16, 2007

unghie


Harold Lloyd

Sognavo spesso di avere del cotone nella bocca, la solita vecchia questione delle cose mai dette. Ma poi me lo ritrovavo anche nell'ombelico e allora mi domandavo che cosa avessi mai avuto di così importante da tirar fuori, da pensare di dover parlare con la pancia. Allora, con calma, mi cacciavo un avambraccio in gola arrivando fino allo snodo del gomito,e, con la punta delle dita, in mezzo ai polmoni, appena a sinistra trovavo un pezzo di carta e tiravo su lentamente. Il foglio umido e piegato in quattro aveva una data 25.09. 2004 e dentro c'era scritto “Io non ho fantasia, sono solo distratto”. Dunque il mio posto non è questo. Da dove vengo io, i giocattoli sono di latta e i francobolli si staccano con il vapore. Le parole invece sanno di seppia ruggine e nel naso e nelle orecchie i pennini scricchiolano, le uova si bevono con un piccolo buco in cima, e il nero sotto le unghie è solamente l'altra metà della luna. Ecco, così, quando passi la vita in mezzo alla carta, finisce che credi solo a quello che vedi o che senti sotto le dita. E' per questo che non rispondo più al telefono. Sogno spesso di avere del cotone nella bocca, e la cosa bella, è che io, non ho un cazzo da dire, perché come ha scritto qualcuno, “i grandi sognatori non dormono mai”, ma c'hanno un gran sonno.

sabato, gennaio 13, 2007

barnum


P.T.Barnum nasce nel 1810 nel Connecticut, da padre trapezista (sulle navi da crociera) e madre mimo, viene alla luce durante una sosta della nave “Alpaca” nel porto di Montpellier mentre i genitori provano il famosissimo “Carpiato Mc.Coy” che consisteva nel fare ben quattro volteggi in aria eseguendo, intrecciandosi con le gambe, un nodo marinaro. Alla morte del padre (insaccatosi in modo letale fino a raggiungere la ragguardevole statura di 28 cm. Cadendo in piedi dal trapezio senza rete) ereditò un circo delle pulci e un nano clown di seconda mano. Mise così in piedi il primo spettacolo itinerante, ma vedere il povero nano grattarsi come un bassotto con la scabbia non sembrava sortire risultati eclatanti nel pubblico. Nel Giugno del 34 durante la sua prima tourneè scrive queste poche righe alla giovane moglie “Cara Therese, il nano usato si stà rivelando un clamoroso flop, sono allo stremo e senza un soldo, quando il Sig. Mauherous verrà a chiedere l’affitto potresti mettere quella camicia scollata? Dio! È così frustrante, forse dovrei mollare tutto, domani ho un incontro con un certo sig. Mapple, sostiene di essere in grado di piegarsi in quattro e di spedirsi per postacelere fino in Cecoslovacchia al costo di una busta normale. Speriamo che non sia la solita bufala come quella del mese scorso, il tizio che sosteneva di camminare sulle mani in realtà non aveva le gambe. Ti amo, bacia il piccolo Robert , non depilarlo più ed insegnagli ad ululare, un figlio con l’ipertricosì servirà pure a qualcosa!” Nel 1935 il primo successo, Barnum incontra i fratelli Pollsky che avevano la singolare capacità di vivere uno dentro l’altro come una matrioska. Il numero comincia ad attirare pubblico, ed artisti provenienti da tutti gli Stati Uniti cominciano a proporsi all’attenzione di Barnum. Si aggiungeranno poi Il fachiro Hasshi che ingoiava cocci di vetro e defecava lampadine accese, Ugo Rebeffi detto l’uomo tapiro (o Ugo il pachiderma), affetto da una rara forma di labbro leporino riusciva a nutrirsi di sole formiche direttamente dal formicaio, anche se il colon irritabile lo costrinse a ritirarsi presto. La quaglia più grande del mondo e l’uomo computer (un ritardato dell’illinois che riusciva a dire la radice quadrata di otto facendo il passo dell’oca al contrario) riuscì a fare il miracolo, portando il circo Barnum a diventare il primo d’America. Nel 1936 al termine di una trionfale tourneè P.T.Barnum decide di dare un ulteriore svolta e dopo mesi di ricerche in mezzo mondo scova Jeremia Solmon detto “L’uomo Eterno” che dichiara di avere 200 anni, una foto lo ritrae con Buffalo Bill ad una cena fredda mentre mangiano degli arrosticini di bisonte, ed un altra ancora più incredibile lo mostra mentre spara ad Abramo Lincoln nel 1865. E’ un trionfo, ma I rapporti con la moglie cominciano a deteriorarsi, Barnum ormai non riesce più a fare l’amore se non in presenza della contorsionista Betty Russell. “mi suggerisce le posizioni migliori” ebbe a dire Barnum al suo avvocato divorzista, “Potrei sopportarlo, se solo non le provassero prima ogni volta” sostenne la moglie con i legali“e poi dovevo pure scioglierli”. Nel 1940 Barnum si sposa in seconde nozze con Anna Ridgley, donna cannone durante la guerra di secessione, il loro sodalizio umano ed artistico dura finchè la Ridgley non sbaglia mira e centra il capanno dei siamesi Berthold, (straordinario caso di fratelli uniti per le sopracciglia), separandoli irreparabilmente. E’ l’inizio della fine, un grave forma di alluce valgo ed una rivendicazione sindacale degli orsi ballerini , lo riduce sul lastrico. Ma quando una alopecia androgenetica fa spuntare la chierica all’uomo lupo, il dramma si compie. Barnum si ritira nel Kentuky, vivendo grazie alla vendita delle uova della quaglia gigante e alla compagnia fedele del nano usato Buster Logan che gli terrà compagnia fino alla fine. Barnum si spegne nella notte del 13 agosto 1955 in seguito ad un durone fulminante all’alluce destro, morì pronunciando la celebre frase “Buster, nella vita ho avuto successo, ho realizzato grandi cose, fatto sognare milioni di bambini. Una sola cosa non sono riuscito a capire....”

mercoledì, gennaio 10, 2007

buràn



Perchè la grafica di Questa bella avventura è la mia, perchè è stato divertente lavorare con Loro, e soprattutto perché spero che forse leggendolo, qualcuno capisca anche cosa c'è scritto qui sotto, e magari me lo traduca. Io comunque, non avrei saputo dirlo meglio di così.

É apoditto Buran, seduo, e anche ivaro. La ricchezza di folane e pernugli permette ogni vossio. A leggerlo con l'occhio più caduo e antenio possibile, si coglie un diameno profondo e canace. Ma non basterà prestarvi senodi o panevilli, Buràn vi trastumerà, vi costimerà, vi lascerà voldi e pasquozzi. C'è una tale ricchezza di sfugami da farvi cosmidare di gaiozza come mai prima d'ora. La parola, in ogni sua fosta, in ogni afrullo; dietro ogni apedistico troverete rimonie, angesie, e increduosi ascorsi vempi e dovrete incresi circumnavigare il verbario terrostro. Eppure, c'è in Buràn quel soglie di frumaccie, quel retrosario di parfe, una genusta, ingomina desteria, che se fino ad oggi avete eriano, da domani non potrete esuadervi dal gusmare ghiozzi. E solo allora, esuassi e domigni, leccandovi i pelaffi, dalla voce rosca e falunia, una sola parola sifiona : Buràn!

mercoledì, gennaio 03, 2007

anima salvia


Norman Wyatt Jr.

Amorino mio bello all'aceto balsamico, in punta di labbra, senza un attimo di scalogno, piena di buon senso tutta marinata, t'ho aspettato e sei tonnata, vellutata come non mai, dai riflessi dorati con le mani affusolate a mantecare il mio amore, petto di parannanza, sogliola di paranza, amore di limone, cuore di tabasco, sesso di cioccolata, scolata, leccata, anima insugata, memoria di mollica, della nostra complicità faccio una scarpetta, stupore di pan grattato, risa di pomodoro, ti adoro ti odoro, mi lecco le dita e aspetto che acciuga, sei bella da fare indivia, così, alla diavola, aperta al tuo mascarpone, cosce di faraona, chiappe di nutella sei bella culo di padella, ballo una coratella o crema, la mano trema, margarina di campo, senza gambo, non ho più scampo, o mia alice, meretrice, friggitrice, mi vuoi guardare, rotolare impanare, sentirmi gridare e rosolare, piove stracchino sono il tuo rosmarino, saliva di vino, anima prediletta, polpetta, naso da tartufo, a scaglie avvisaglie, avanzo pingue tuo lardo giovine, pancia di colonnata. Sbavo e scavo nel pecorino la mia fossa, un aringa commossa, e tu, recita in ginocchio un omelette per la mia anima salvia, in questa bara di baguette, perché son crepes.

una volta al mese, Camilla, sbrina il frigo, e mi invita a cena. Che buttare gli avanzi è peccato, si vabbè, ma io che c'entro?”

Roy Hobbs, diari, 1979