martedì, giugno 26, 2007

dancing



ho ombre scure sugli occhi che fanno buio anche di giorno, come nuvole nel latte. ho anche il numero 23 incollato dietro la giacca, come un pesce d'aprile, e speriamo che abbocchi. Non mi ascolti adesso, voltata di lato, distratta dal giorno che sfila via come una quinta. Ma sappiamo come vivere noialtri con i passi addosso, aspettando il prossimo giro, morire come cavalli. Nelle tasche, ho solo le mani, strette come abbracci a vuoto, sperando che sembrino piene, di monete, di biglietti scaduti, un bottone. Non ho più fiato.

Ho creduto di vederti una volta, al treno, in mezzo al vapore. Ero nascosto dentro al cappotto, senza più accento, aspettando i sottotitoli, contando i passi che mancavano. Poi, mi sono ricordato che non so ballare. Mi sono preso per qualcun altro, come ogni giovedì.

martedì, giugno 19, 2007

ottovolante e mezzo


prologo (ermetico)
la maga degli stracci, legge il futuro in un culo di bicchiere, mi aspetta merda quindi, come scomporsi adesso, beccato alla turca dietro le carte da gioco?

Il cow boy
Il rumeno vestito di calce si accoppia con un flipper, sparando monete dai fianchi. Sorride oro, con le scarpe spaiate e un maglione a rombi troppo corto anche per salutare. Basta a malapena per sognare. Sognare la cassiera , il culo della birra da calendario, e una vincita all' ottovolante. Sogni di soda, con il fumo dietro l'orecchio e quella insopportabile puzza che non riesci a toglierti di dosso. “Accoppiare i colori è un arte baby, e io sono un cow boy color salmone” lo dici con l'espressione migliore del tuo repertorio, se solo avessi portato gli speroni oggi, e nella fondina venti centimetri tutti per lei. Sorridi oro, e non hai speranze.

la cassiera
tre tramezzini, una mezza minerale, una coca e due caffè” la cassiera da bar non capisce un cazzo di rumeno, e dietro il ciuffo arancione pensa che non hai possibilità, non si scopa con uno che ha un tatuaggio che dice “Mamma ti amo” e un pezzo di carta da parati incollato sul culo. Torna a scoparti il flipper, che il mio amore stasera forse non ha bevuto, e il livido sotto l'occhio non si vede quasi più. “tredici euro e cinquanta, prego”.

Il lanciatore
Per vincere un orsacchiotto gigante ci vogliono, buona mira e un orsacchiotto gigante. I barattoli di latta sono per metà pieni di sabbia e per l'altra metà una truffa. Adesso tu lecchi una mela candita e la mira ne risente, però, se non vinco posso sempre portarti a ballare o spaccare la faccia a quello che ti guardava il culo al parcheggio. L'ultimo lancio è da manuale, e non ho nemmeno dovuto sputare nella mano. Fuori, niente orsacchiotto. Ma quanto ti amo io a te? C'è ancora quello del parcheggio, gli spacco la faccia amore, e poi scopiamo sul sedile posteriore della mia 128 Abarth con la testata ribassata.

bubble girl
Tu ti agiti sopra, ma che avrete da muovervi tanto. hai l'alito che sa di tortillas e di birra, ma quanto ci metti a finire? Allungo le mani per cambiare stazione, odio il liscio, e la puzza di profilattico. E la cosa peggiore è che non hai vinto l'orsacchiotto gigante nemmeno stasera. Ti dispiace se non sputo la gomma?

lo scemo
C'è un cane a tre zampe, proprio sotto i calci in culo. Un mio amico una volta si è sganciato il seggiolino, che ancora lo cercano. Un mio amico, insomma quello che stava sempre ai calci in culo. Ma era del cane a tre zampe che vi volevo parlare, ma il fatto è che io non mi ricordo le cose. Credo di ricordarle poi mentre le penso mi domando “che cazzo penso?” e me le scordo. Che forse era mio il cane a tre zampe, ecco. Che adesso non me lo ricordo proprio bene se ce l'ho avuto un cane, forse me ne ricordo uno però, che dovevamo partire per Cattolica, e mi ricordo lo sportello che si chiude e mio padre che dice che libero starà meglio. A volte me lo immagino che corre, con tre zampe, é per questo che non arriva mai.

Epilogo (esplicito)
ho vinto un orsacchiotto gigante, e questa è la buona notizia. Poi, un tizio al parcheggio mi si avvicina e indicandomi un trans mi fa “lo vedi quel culo?” e io con la bocca piena di zucchero filato faccio “quafe cufo?” e quello mi spacca la faccia. Se ne va, e mentre sputo la terra, il sangue e un molare mi dice “era mio anche l'orsacchiotto”.


giovedì, giugno 07, 2007

giugno '76



mio fratello si chiama Arno, come un fiume italiano, o come un condottiero lappone. Avevamo sandali di cuoio e piccole magliette a righe, andavamo alla curva in fondo alla strada per veder passare Fangio, coperto di farina di polenta. Io e Arno, passavamo i pomeriggi su strade bianche, facendo il verso alle auto, imitando i grandi, il che voleva dire secondo noi, masticare tabacco o menarselo per vedere chi schizzava più lontano, e anche bere vino amaro. L'uva fa schifo qui, qui ci sono solamente gli italiani e i fascisti. Arno poi fece il sindacalista, e li menava i fascisti, ma poi mi diceva di non dire niente a casa. Nostro padre viveva in un angolo, ascoltava una radio di legno con la spina staccata che parlava italiano, e , diceva lui, "ringraziando iddio non passa il tango" . Stava li, con la mano sulla manopola e un dito sulla bocca, aspettando voci da radio londra con la testa inclinata da un lato. Febo, il cane, lo guardava piangere e non capiva, sbadigliando in napoletano, sopra un divano col cellophane. Mia madre invece ingoiava i chicchi del melograno in una colpa sottovoce, la stessa che annusavi sui tram e fuori dalle fabbriche, o dentro le macchine verdi e senza targa che portavano via la gente. Ogni tanto qualcuno spariva, e diventava un ombra, l'alone di un quadro rubato. Io è tutta la vita che aspetto che Arno torni a casa, che l'auto verde accosti e si apra lo sportello, allora mi siedo alla curva in fondo alla strada bianca, e faccio il verso alla vita.

"Tutto questo, o quasi, accadeva molto prima che arrivassero i generali, che Arno diventasse un ricordo, una telefonata attesa per sempre, una lettera mai scritta, molto prima che la picana elettrica cominciasse a suonare, prima che diventasse un nome a caso cantato da un vicino, una milonga"

venerdì, giugno 01, 2007

metallico & la teoria del Buslacchi


Dave Mckean

la macchina mi ha mangiato le dita. Non tutte Clara, non temere, solo qualcuna, le conterò a tempo debito e ti farò sapere. Sotto i polpastrelli restano marchiate le lettere dei tasti, poi ho questo sapore blu di inchiostro nella gola. Troppe leve, valvole, soffi di vapore, non è roba da sarti questa. Me lo diceva sempre il Buslacchi, che il mondo non sarà giusto almeno fino a quando gli uomini non potranno scegliersi il lavoro e le donne. La macchina mi ha mangiato le dita perché io so accontentarmi. Tutto quell'ottone, e il rame, tutto questo testosterone cromato che soffia nella sordina dei tubi, questo progresso ingordo e ruggine, non è la mia vita, ma, mi ha convinto e la vivo al posto di un altro. Clara, amore, ho un polmone variopinto come un pappagallo alla catena, e una gola di cuoio con un buco per la voce. La mia schiavitù non è un turno di notte, e nemmeno due chiacchiere da guardia spergiura con il respiro d' aceto, ma la paura di scegliere, e a te, io, non t'ho scelta mai, d'altronde le parrucchiere non si scelgono, le parrucchiere capitano.

La macchina mi ha mangiato le dita, bestia verderame, inedia dentata, e stasera avevo un disperato bisogno di bellezza, la mia.”