venerdì, febbraio 29, 2008

moldova blues



insomma, passo i miei sabato pomeriggio (plurale: sabati pomeriggi) sulla tazza del cesso a fare le parole crociate che la mia coinquilina non è riuscita a finire. La mia coinquilina si porta gli uomini a casa, e si innamora a targhe alterne, però poi si fa pagare, sempre. Usanza Moldava, mi dice Maria. Facciamo colazione insieme e lei ingoia i fiocchi d'avena con il latte, io invece mi strozzo con i peperoni che mia madre mi fa arrivare già scaduti dalla Calabria, e io poi mi cago addosso per una settimana, ma siccome li ha fatti la mamma me li strozzo lo stesso. La mia coinquilina gira seminuda per casa e io ci ho l'orchite e tre esami alla laurea in scienza della comunicazione. Ho 43 anni, studio nel cesso seduto su una lavatrice Zoppas del 1976 a cestello verticale. La vista dall'oblò sopra il bidet non è male, vedo uno spicchio di parco Zanardelli e il cesso di quella di fronte. Studio qui perché nell'altra stanza consumano tutta la coca rimasta e il resto e uno strano mugolio incagliato tra le molle del letto, e una civetta sul comò. Adesso Maria sta con un tizio di 67 anni, il proprietario di una concessionaria Skoda (plurale: concessionarie skode). Le ho chiesto di fare qualcosa per il letto che cigola e di cambiare vocale durante l'orgasmo, mi ha risposto che non è il letto a cigolare ma il tizio della concessionaria. Per quanto riguarda la vocale invece, stasera proverà una "U" nuova di pacca, roba di lusso. A febbraio (plurale: febbrai) Bologna è fredda, qui ci sono solo i portici e poi le donne non hanno i baffi, però mi piace il tuo sorriso pieno zeppo di carati, gli accordi maggiori, e quella croce di legno che porti in mezzo alle poppe. Vorrei dirti che ti prende per il culo, che non lascerà la moglie, anche perché non è sposato, ma mia madre non mi ha mandato ancora l'assegno di 500 euro, e devo arrivare alla terza settimana, quindi, non mi escono le parole. Ecco, non cigola più. Sto qui, ad annusare il tuo perizoma insieme al riso scotto nel lavabo e a uno scarafaggio viola nel barattolo dello zucchero. Maria, mi sa che ti amo. Se solo io non lavorassi alla concessionaria Skoda.

giovedì, febbraio 21, 2008

giardino di ferro


Eugene Smith

La luna è un unghia, la notte un pezzo di carta vetrata . Le stelle invece non le vedo, ho due cocci di vetro poggiati sul naso, buoni per cercare il nemico, non per guardarsi le spalle. Il ragazzo di Napoli con la faccia da bambino mi ha chiesto di portare una lettera in bocca, di tornare a casa. E ieri, è un cane senza coda che piscia sulla mia quercia. Ci penso sempre, un tempo, ho avuto un granaio che voleva essere pane, e una rosa che tradiva. Poi ho conosciuto un cipresso che non voleva essere bara di sconosciuti, un carciofo giudìo che voleva essere fiore in un occhiello, una quercia convinta di essere il pesco di Napoleone e una zolla che guardava tutti dall'alto in basso. Voglio solo tornare a mettere trappole per conigli di pezza, toccare il culo alle donne per la strada e poi chiedere il prezzo, e voglio pure accecare i passanti con gli specchietti per le allodole. Vorrei un caffè. Il ragazzo di Napoli si muove a scatti sul suo tamburo di latta. Tengo la sua lettera in bocca, come un cane. Ho un avancarica col calcio in legno poggiata alla spalla destra, pronta a sperare. L'infermiera fruga sotto le lenzuola, tra le mie gambe ferme, sorride sotto la croce nel berretto. Io, non sento più niente.

mercoledì, febbraio 06, 2008

amelia



atterrare, è la più grande delle miserie umane.

forse era per via della malattia. una forma degenerativa del cristallino, oppure per quella volta in cui il bicchiere andò in pezzi e qualche scheggia di vetro doveva essersi incastrata nella retina, creando quell'effetto caleidoscopio. Il medico degli occhi, per tenerla buona, le dava delle caramelle al ribes che fanno le bolle dentro, allora lei parlava volentieri con il teschio appoggiato tra "anatomia comparata" e "alice nel paese delle quisquilie" di come scartare i pacchi senza strappare la carta, e di come scaldare aerei di carta alitando sulla carlinga a quadretti con i numeri stinti. Non è che dicesse bugie, non proprio. Vedeva delle cose, ecco. L'orso di pezza era ballerino per esempio, per via del diabete sapete, lui diceva che non potendo cedere al miele, trova irresistibili alcuni accordi maggiori del ragtime, e allora ballava, e fanculo agli zuccheri. Insomma, ballare e pettinare lana di vetro, questo le piaceva assai, e trovare vecchia carta velina nei cassetti da incollare alle ali delle mosche. A volte se il tempo era buono, si poteva pescare nella vasca da bagno, non quando nuvole scure si addensavano dietro lo specchio, macchiato di rame verde e mercurio. Per arrivarci, servivano due libri di figure mai letti, o sbattere le braccia. Un giovedì, la donna che l'accompagnava a scuola tenendola per mano, e che con qualche perplessità avrebbe dovuto chiamare mamma, le disse che era una gran fortuna non arrivarci allo specchio, e che il giorno in cui fosse accaduto non avrebbe visto quello che era, ma quello che era diventata, e che quasi mai le due cose coincidono, a meno che non si sia diventati pazzi o ciechi. Il medico degli acciacchi picchiettava poco sotto il ginocchio, e la gamba non ne voleva sapere di passeggiare, non di giorno almeno, per contro le batteva un occhio, quello verde. Dopo le visite, a casa, allargare il buco in una coperta con il dito pareva irresistibile, guardarci dentro poi, non ne parliamo, arrivava il calore del respiro del sonno e si potevano vedere le ombre di certi sogni o le lettere delle parole e persino le mappe del cielo. E poi, sotto le coperte si poteva camminare scalzi, e che ci fossero erba o sale marino, non faceva nessuna differenza, cosi come tenere gli scarafaggi nella scatola dei formaggini con una foglia di insalata. Si potevano anche spostare le lancette degli orologi in posti introvabili, minuti persi pensava lei, ma questo dava un senso al tempo, e lui, il più delle volte ringraziava. Il medico dei sogni la fece stendere su un lettino, poi gli porse un piccolo specchio rotondo. Lei, avrebbe potuto parlargli dei giochi di legno per esempio, del fatto che sono cose a sangue caldo, o anche di quanto le piacesse succhiare di nascosto i dadi da brodo di giuggiole, ma niente.Poi, voltò lo specchio verso il medico dei sogni. Forse era per via della malattia, oppure per le schegge del bicchiere in pezzi, ma, lei guardò le foto degli aerei alle pareti senza parlare, e lui si addormentò per sempre, malgrado il vento nei capelli bianchi.

lunedì, febbraio 04, 2008

(p)rima baciata


Greta Rosso

ora che sei entrata, con il tuo vestito di carta di giornale, ed il passo da educanda pentita, mi accorgo che mi togli lo spazio, e hai troppa lavanda addosso. Leggo sulla tua nuca la tragica notizia del tuo personal trainer affogato cadendo dal vogatore nel tuo salotto. Inciampi nel pomeriggio della mia moquette verde topo, dici che vuoi un figlio, subito, da chiunque. Per l'occasione hai scelto un chimico di Toronto che ti ama per posta, un buon partito con la lingua buona come cartina di tornasole, per questo ti ho vista leccare i suoi francobolli, sesso a distanza, e ti sciogli pensando che la sua saliva ha un ph neutro. Vuoi un figlio con gli occhi del padre e la fretta della madre, ti spiego che la genetica è il posto peggiore dove vivere, quello dove i geni sono tutti compresi, una noia. Allora, mi cinguetti nella segreteria telefonica che ho trent'anni da quarant'anni, non un minuto di più, e molti di meno probabilmente. Mi rinfacci di aver lavorato nelle miniere di cioccolata, di aver passato metà della vita a leccarmi le dita, come chi la sa lunga, e che la sera avevo sempre mal di testa. Ti spiego che venivo da sinistra, da un senso di colpa vietato, e che tu la notte sapevi di vodka, e dopo russavi come un gruppo elettrogeno. Niente. Allora ti sussurro in un delirio d'impotenza che mi fai venire voglia di tornare sui miei passi, di spalle.

l'apostrofo è un rosa tra il dire e il fare testamento. Amen.