venerdì, ottobre 31, 2008

mlle lumière (2/2)


Lucien Freud

il mio uomo sogna. Sogna a piccoli scatti, come i passi da fotogramma, rovescia gli occhi dietro le palpebre chiuse, busso allo spettacolo senza invitati con uno sparo di tosse. Vorrei che almeno una volta mi guardasse come guarda lo schermo, senza battere le ciglia. Negli occhi da ladro, guardo il riflesso dei treni in corsa, ingoiati nell'alito del vapore seppia. E voialtri con la bocca spalancata, come i cani alla luna, nella sorpresa della lampada e dell'ombra, seduti sul vostro stupore numerato, non sapete che il mio perdono è sulle sue guance, o nell'incavo del collo, nel gioco del biglietto a metà, nelle sue spalle strette. Perché mi ama come può, in bianco e nero.

giovedì, ottobre 23, 2008

classe ponte


Brad Holland

un giorno, sono entrati in classe e ci hanno spiegato che per il nostro bene, noi negri, marocchini e macedoni non potevamo stare insieme agli altri bambini perché non parlavamo la stessa lingua e che dovevamo andarcene da un altra parte, tutti insieme, per impararla. Un giorno sono entrati in classe e ci hanno detto che noi negri non potevamo usare gli stessi bagni dei nostri compagni perché i nostri bagni sono alla turca e i loro no. Un giorno sono entrati in classe e ci hanno detto che non potevamo stare insieme ai nostri compagni, per il nostro bene, perché la nostra pelle era diversa, mischiarsi no, avrebbe generato confusione e incertezza e non è il caso. Un giorno sono entrati in classe e ci hanno detto che al refettorio noi non saremmo potuti entrare, perché noialtri mangiamo con le mani, e quindi ci hanno mandato in un altro posto dove ci avrebbero insegnato ad usare le posate. Un giorno sono entrati in classe e ci hanno detto che nei locali pubblici, per il nostro bene, non saremmo potuti entrare, e che per non fare confusione ci avrebbero messo un bel simbolo tutto colorato sul grembiule blu. Un giorno la vicina di casa per le scale ha detto che non poteva più salutarci. Un giorno mio padre mi ha portato a scuola in bicicletta perché sullo scuolabus non c'era più posto. Un giorno sono entrati in classe e ci hanno detto che per il nostro bene, noi negri, slavi e albanesi saremmo stati portati in un altro posto, ma tutti insieme, in classi più grandi e che avremmo fatto un bellissimo viaggio per andarci. Un giorno sono venuti a prenderci, e ci hanno messo su un treno con centomila vagoni, tutti insieme. Il vagone puzzava, e mio padre mi ha tenuto la mano per tutto il tempo e a me scappava tanto la pipì, e alla notte me la sono fatta addosso, però papà non si è arrabbiato. Un giorno, scesi dal treno ci hanno detto che noi negri, rumeni e bielorussi non potevamo stare con i nostri genitori, perché i bambini sono bambini e i vecchi sono vecchi, poi ci hanno tolto i vestiti, che faceva freddo. E allora mio padre non l'ho visto più, tranne una volta che mi pareva che mi salutava dall'altra parte del filo spinato, ma mica lo so se era lui davvero che erano vestiti tutti uguali. Un giorno sono entrati nella grande camerata, e ci hanno detto che il mondo è pieno di gente cattiva e che per questo, per il nostro bene, ci avrebbero marchiato con dei numeri sulle braccia , per riconoscerci e per non farci perdere. Oggi sono entrati e ci hanno detto che ci porteranno in un posto bellissimo, a fare una vacanza in un posto azzurro dove c'è il mare, che io il mare mica l'ho visto mai. Prima di partire, ci porteranno tutti a fare la doccia.

venerdì, ottobre 17, 2008

l'ascensorista di Babele



Mio padre era ascensorista, e anche mio nonno. Lo vedevo pochissimo mio padre, tutto un su e giù all'Hotel Babel tra la costa ovest e la quattordicesima. Faceva il turno di notte mio padre. Un giorno dopo la scuola mi portò in cima al roof garden della torre di mezzo. Dalla vetrata si vedeva una distesa eterna di ferro battuto e sassi. Ai tavoli servivano pioggia acida e tè. allora capii che è così che muoiono i ricchi, seduti. "Il destino" come mi disse con le costole strette nei suoi alamari "è una pulsantiera di rame ed avorio, devi capire le persone Norberth. Ascoltare. Il dono non basta. Tu hai un gran dito, tocco, leggerezza, proprio come me, e come tuo nonno prima di me, e hai anche 2000 metri di elastici e cavi nello stomaco, quando inghiotti figlio mio senti le carrucole, come le ginocchia dei vecchi o le navi che affondano al porto, cigolando, nel proprio mercurio. Ma questo non basterà" aveva ragione lui, cristo. Questo sono io, Norberth Mendhelbaum ascensorista al Babel, per servirvi. Sbagliare piano è un arte, un dono, come lo zio Mulleen, che era divinamente stonato e fece crollare il Metropolitan Music Hall nel 39 stonando come un alce in calore "My sweet Elevator in September". Mai ricostruito, 120 morti, un trionfo. Non capire un cazzo di quello che ti dicono, non sapere le lingue, non ascoltare (confesso) è il mio talento. Con il mio su e giù, ho portato l'assassino olandese nella stanza del giudice in novembre, eppure la morte fu dolcissima, pasta di mandorle nelle vene e un equo processo. Ho portato la puttana berbera sulla retta via, a battere senza le curve e con un buon divano di broccato sotto il culo benedetto, nella stanza del poeta impotente. Ho portato il prete con la fede che balla all'anulare, nella stanza della puttana, senza nessuna fatica. Ho portato l'uomo senza fede nella stanza del prete. Ho portato il cieco con la valigia di pelle, sul cornicione a dar da mangiare ai corvi. Ho portato anche il giudice nella stanza del ladro di polli, aveva la lingua da faina e le piume da cuscino nella bocca. Ho portato la donna che sorride nella stanza dell'uomo che piange, la iena e un coccodrillo a mangiarsi i ricordi l'un l'altro. Ho portato financo lo storpio nella stanza del dandy, a provare le giacche e darsi profumo, dritto almeno una volta davanti allo specchio, come mamma non l'ha fatto. La donna coi fianchi larghi invece mi disse "15° piano, grazie" ogni giorno. Finché non la portai sul tetto, per far colpo, per farla felice e ovviamente perché non avevo capito un cazzo. Ci amammo a lungo vicino alle piccionaie e fu tutta idraulica, sapete, vapore rame e stagno. Poi restammo sfiniti a guardare i cornicioni con vista sul porto, sfasciati nella mia divisa rossa calata fino alle ginocchia sbucciate. Tirandosi la gonna sopra le anche "15° piano, grazie". "Da qui", le risposi, "è tutto orrizzonte, tutto un domani, promesse da mantenere, alimenti" dalle stazioni meccano, partivano trenini Rivarossi e lucciole con lanterne. Lei sorrise e non capì un cazzo, poi disse "15° piano, grazie" io sorrisi, non capii un cazzo e le feci un ditalino, proprio li, sul catrame del tetto coibentato di marzo. Allora Lei si sciolse i capelli che finirono due piani più giù, negli occhi di una voyeur, e mi disse, di rossetto e saliva aspra "ti amo". Io risposi srotolando 6 piani di budella nella tromba del mio ascensore "15° piano, certo."

giovedì, ottobre 09, 2008

ho ucciso Shirley Temple



Il suono delle claquette mi ricorda quando a dieci anni imitavo Mr. Astaire davanti ai parenti. Credevo che ridessero per divertimento, o per tenerezza. Ridevano perchè non so ballare, e dopo, si ingozzavano di tacchino ripieno. Ho ammazzato Shirley Temple. Era li che ballava il tip tap, con la faccia piena di rughe e mi cantava, dal basso dei suoi 108 anni di nana bambina "tu non sai ballare" ma in inglese "iu ar not eibol tu dans". "Odio il rumore delle tue claquette" ( ai eit de saund of ior clacchet - ing.) e gli ho sparato in mezzo alle costole di plastica.

il rumore che più detesto è quello del cucchiaino che struscia nel vasetto dello yogurt quando ormai è finito. E anche quello dei baci al cinema. Sentirti masticare è un supplizio, così come lo scarico del lavandino del tuo ingoiare. Il rumore della sabbia sotto le scarpe mi ricorda lo stabilimento Kursaal, e Matteo che si spacca la testa con il remo di un pattìno. Il rumore dei pedali della bicicletta mi ricorda la pineta di Castel Fusano, dove ti abbassavi il costume e mi facevi vedere la fica, con pochissimi peli nell' 'inferno delle cicale. Il rumore dell'aspirina mi ricorda mezzo manico di cucchiao nella gola per guardarmi le tonsille. Il rumore della carta mi ricorda quella donna sfatta che odorava di olio di cocco e mortadella e che prima di girare la pagina si leccava l'indice e a me veniva il vomito.

Mi tappo le orecchie e premo le tempie fino a sentire il mare nelle conchiglie, e ci sono ancora i cani dietro le dune, coi loro latrati di impazienza che dicono "Ogni rumore è un ricordo, ricordo ogni rumore". Ecco, Il rumore dei cani mi ricorda i miei giorni ridotti all'osso. Dovrò far fuori anche loro, sapete. Il prossimo sarà Rintintin, o Lassie.