lunedì, febbraio 22, 2010

zorro



Non mi piace scrivere, non mi pioace leggere, non mi piace nemmeno disegnare. Non mi piace niente e soprattutto non mi piaccio io. Sono un bugiardo. Ieri, ho tentato una rapina in banca con una banana scarica (non avevo tolto la buccia) così per vezzo, un piacere estremo, un ricamo isterico. E fortuna ha voluto che la guardia giurata avesse la zucchina con la sicura inserita e una moglie frigida. Cerco conferme e trovo sempre occupato, se pagassi il canone forse, chissà. “Diego” diceva mia madre scambiandomi per mio fratello Sancho “Ricordati una cosa” Ecco appunto, è tutta la vita che cerco di ricordarla eppure, niente. Deve essere un dettaglio, qualcosa nelle mutande, un granello nell’ingranaggio, sabbia tra i denti, manca lo so e non è l’arancione. Cercare quello che non sai è fonte di grande frustrazione e di dissenteria, e poi, non serve assolutamente a nulla nei casi di orchite. Ma a volte è nitida l’immagine di una serratura, altre volte invece è la voce di una donna che mi chiama per nome, altre ancora mi pento dei tuoi peccati. Non vi traggano in inganno la camicia di forza e le mie braccia legate dietro la schiena, è pur sempre carnevale e tra un costume da pazzo ed un pazzo vero, io, scelgo sempre Zorro. Le zeta le faccio sul muro, con le unghie o con il piscio, anzi no, con la spada. Proprio Li, sul pallido culo del sergente Pedro Garcia da Portocannone, con moglie tre figli e una prostatite a carico. Garcia mi sputa nel piatto, ma io l’ho sempre fregato tengo tutto sotto la lingua e non inghiotto mai. Come i topi nel rancio, che poi sono il rancio. Ho un piano adesso, datemi del carbone così avrò baffi nuovi , stelle sui talloni e ferrate il miglior cavallo a dondolo che sarò alla volta di Tarragona (alta) domani. Stringete intorno ai polsi quanto volete adesso, non temo i legacci. Rido al mercurocromo freddo sulle tempie, dai pure corrente Garcia, non mi mordo la lingua. Don Diego mi chiamo, e non so cosa cerco.

avevo scritto un bellissimo pezzo oggi, poi, me lo sono dimenticato. Però ho trovato una chiave nelle mutande.

mercoledì, febbraio 17, 2010

quello che resta



alla fine è questo. tutto quello che resta sono le foto. foto tenute insieme con l'elastico, piccoli formati ritoccati a matita. in una sei vestito da balilla e qualcuno ti tiene per mano, si vede solamente il braccio. hai un cappotto troppo corto, e delle calze che alla sera ti avranno lasciato un segno blu poco sopra i polpacci. i ricordi hanno tutti indistintamente i bordi mangiati, materiali scadenti o cattiva memoria. metto le tue camicie ben piegate in buste di plastica trasparente negli scatoloni. avevi una bella camicia anche il giorno in cui mi hai spiegato come funziona il mondo, niente polline, io sono allergico, dicesti. lel garage sotto un telone militare c’è la tua moto. a sessant’ anni volevi andare a Capo Nord con una vecchia Guzzi che buttava olio e una canadese con pochi picchetti. Sarai arrivato si e no poco sopra Viterbo, anche se spedivi cartoline senza francobolli da ogni parte del mondo. Eri fatto cosi tu, male. poi, canne da pesca, delle foto di Paola nuda sul divano della casa al mare, delle galosce marce, una lince impagliata che non hai mai ammazzato.Gianni dice che l’avevi comprata ad un mercatino insieme ad una medaglia militare e al tuo diploma da dentista. I dischi di Ma Rainey. apro l’armadio, e arriva così, come il vomito. alla fine è questo, tutto quello che resta è l'odore di naftalina sui tuoi cappotti. chissà quanto cazzo mi daranno per questa casa.