venerdì, marzo 26, 2010

volevo essere le tue gambe


Ryan Mendoza


Ti cade il gelato dagli angoli della bocca, lo raccolgo con un cucchiaino, e te lo ricaccio dentro. Hai le braccia lungo i fianchi e la testa inclinata su una spalla. La signorina alla cassa mi guarda con tenerezza, allora ti pettino guardandoti con gli occhi dei cani, e la stronza va in brodo di giuggiole dentro la sua divisa rossa macchiata di lampone e cioccolata. Pago, spingo la tua sedia a rotelle fino alla porta a vetri del centro commerciale “credevo ti piacesse il gelato, cazzo.” Poi usciamo che è quasi aprile, e ti alzo il bavero del giaccone. “non prendere freddo, amore”.

Alla pompa di benzina metto 20 euro, tutto quello che mi rimane in tasca. Ho speso quello che avevo al ristorante, tu non hai toccato cibo e non sai che pena si prova a chiedere davanti a un piatto di mazzancolle fredde e ad una sedia a rotelle in fibra di carbonio “non mi ami più?”. Avrei voluto una risposta qualsiasi, chi tace acconsente. Ti accendo una sigaretta mentre torniamo a Roma. Quando arriviamo sotto casa, dormi già da un ora, ti tolgo la cintura di sicurezza e soffio via la cenere dal tuo maglione.

Mentre ti allargo le gambe immobili Hai lo sguardo al soffitto, ti abbasso gli slip, ti frugo come un ladro. “ti piace?” non rispondi, mi slaccio i pantaloni. Sei asciutta e mi fa male, me ne frego, e continuo a sbattere. Tu guardi oltre le mie spalle, come sempre, mentre la mia saliva scivola sul tuo collo, dietro l’orecchio, sulle tue guance. Un attimo prima di venire ti guardo negli occhi e dico qualcosa che ora non ricordo, forse troia, non so. In bagno ti aiuto a lavarti, l’acqua è fredda e tu non fiati, appoggio la mia fronte alla tua tempia, cerco una complicità che non vuoi, volti la testa sull’altra spalla. Piango.

Sei dall’altra parte del divano, a due, forse trecento metri da me. Hai i riflessi azzurri della tv via cavo sulla faccia, qualcuno canta. Alle tre meno un quarto mi sveglio di soprassalto, con un fischio alle orecchie. Alzo la cornetta e faccio un numero a caso.” Pronto?...” Bussano alla porta, dallo spioncino vedo un occhio cerchiato e il ficus sul pianerottolo. Apro. “Lei è il signor D’anza?” “si?” “ Sono il commissario Tozzi, ci ha chiamato lei un ora fa”

aveva scelto i sassi piatti e lisci con cura, in mezzo alle ossa bianche dei dinosauri e alle alghe scure come capelli incastrati nello scarico. Poi li aveva fatti saltare come ragni d'acqua, fino all'orizzonte. "è facile, guarda" e aveva tenuto il baricentro basso, davanti alla noia della ragazza seduta su una coperta a quadri. "Allora?" e lo disse piano scansando un guscio di granchio con la punta di una scarpa. "allora cosa? è finita". Mentre stringeva la sciarpa intorno al suo collo tenendola ferma con un ginocchio, si guardò intorno, in mezzo ai ciottoli un triciclo senza una ruota, e un preservativo nella risacca come una medusa. Finchè non smise di respirare. A lei uscirono un po’ di lacrime, e non era tanto il dispiacere per l'addio, ma il sale nella bocca, si, e pure un poco per il freddo. Dopo le aggiustò la giacca e la mise seduta. Le tolse le scarpe, sistemandole bene i piedi. uno vicino all’altro. Tolse il blocco alle ruote e riprese a spingere la sedia a rotelle "Andiamo a fare una passeggiata L'aria di mare ti farà bene, vedrai". E si diressero verso il centro commerciale.


mercoledì, marzo 10, 2010

salieri


"Natura Morsa" Roy Hobbs 1669

"la variabile non è Dio, è il tempo"
Ecco. ora succede che quasi sempre, quello che ho in mente, sia meglio assai di quello che riesco a produrre, tranne cinque o sei botte di culo che hanno fatto strabuzzare gli occhi ad una mezza dozzina di persone, compresa una mia zia orba di Roseto degli Abbruzzi. Il che, si traduce con una sola parolaccia di uso comune: Mediocre. Ora, in un mondo dove anche chi fa il presentatore ha l'ardire bizzarro di farsi chiamare artista tutto questo dovrebbe consolarmi, e invece no. Poi c'è Andrea, che me lo diceva sempre "te sei un illustratore, si vede dal collo del piede, abbi fede, io no, io sono libero." Lui infatti, tra le tante genialate che aveva tirato fuori, s' era inventato una linea netta con un pennarellino ad acqua, che passava più o meno al centro del naso e che marcava il segno tra la luce e l'ombra, e quindi il volume. Un solo segnetto del cazzo appoggiato li, il cosmo in una curva di china. Me lo fece vedere una mattina su un pezzo di carta millimetrata mentre beveva il caffè, a Bologna. E infatti Andrea aveva un collo del piede proporzionato assai. Il dramma di questa vita, non è tanto non saper fare certe cose, ma farle dopo qualcun altro, anche solo un secondo dopo. La differenza sta tutta li, riempire il vuoto enorme che c'è tra il genio e la mediocrità stà tutto in quel secondo. Quando ho ammazzato Andrea ho sofferto un poco, però ho anche pensato che forse ci avrei guadagnato qualcosa, l'attenzione. Sbagliavo, il ricordo rende l'uomo con la valigia un eterno, e quello che resta al bar della stazione uno stronzo qualunque che ha perso l'ultimo treno. Ecco, come dicevo, la variabile non è Dio è il tempo. Se ci fossero ancora i gettoni chiamerei dal telefono di questo bar della stazione Tuscolana, proprio dietro lo sbuffo della gaggia ottonata e ti direi: "mamma, quand'ero grande voglio fare il presentatore"