mercoledì, novembre 12, 2014

[piccole cronache senza vergogna / 13]
















Al funerale di mia madre come era usanza dalle mie parti, la gente si ingozzava di ogni ben di dio. Sembravano profughi. Mio zio Ferdinand quasi si soffoca con un osso di tacchino incastrato nel gozzo, e sua moglie Marla, con le dita sporche di sugo, aveva continuato a dirmi tutto il tempo pizzicotti unti sulle guance. Alle tre del pomeriggio mio padre mi aveva trovato chiuso in un armadio a piangermi addosso tra i vestiti di mia madre, e mi disse, paonazzo e con l'alito che puzzava di bourbon che dovevo piantarla, che l'autocommiserazione era come le seghe, faceva diventare ciechi. E poi, stringendomi forte la mano con gli occhi umidi aggiunse "Orazio, figliolo, ora che tua madre non c'è più, purtroppo, non potrò mantenerti. Quindi a malincuore, mi tocca dirti che dovrai mantenermi tu". L'insegnamento profondo di quella giornata fu che il puzzo della naftalina non conserva i vestiti, ma i morti, e soprattutto che nessuno al mondo dovrebbe conoscere l'autocommiserazione prima dell'autoerotismo. Ma a questo c'eravate arrivati da soli, ne sono certo.