martedì, maggio 23, 2017

[achab]
















“Il caso, sebbene costretto al suo gioco tra le linee dritte della necessità, e diretto obliquamente nei suoi movimenti dal libero arbitrio, sebbene così comandato da quei due, il caso li comanda a turno, e dà l’ultimo colpo, quello che li forma, agli eventi.”

Herman Melville Moby Dick


Venerdì 27 giugno


Avresti fatto meglio a fare il pieno stamattina. Il caso governa questo spicchio di mondo, ne sono certo. Nulla è deciso, scritto, niente di quello che ci accade appartiene a un disegno più alto, divino. Più probabile che si risponda alle leggi della matematica pura, dei grandi e piccoli numeri, al caso appunto, o al caos forse, che magari è anche meglio. 
E lo capisco proprio mentre ti vedo uscire dal drugstore con una cassetta di birra appoggiata sullo stomaco, la collana con un dente d’orso ci balla sopra e addosso porti quei vestiti verde militare con le cartucciere intorno alla vita. Ridi con pochi denti, l’igiene orale è tutto sai, adesso per masticare una crosta di pane ti ci vuole mezza giornata e litri di Budweiser. Metti le lattine sul sedile posteriore mentre saluti il tizio che ti ha appena fatto il rifornimento, continuando a ridere. Il cervo è legato sul tuo cofano, vedo le corna spuntare fin sopra il tettuccio, giro intorno alla macchina e gli occhi neri mi fissano senza nessuna domanda dentro. Saliva e sangue sono colate sulla vernice bianca scendendo verso la grata del radiatore e su una ruota senza copri cerchione, le zampe rigide hanno sporcato il vetro e piegato un tergicristalli, dal tuo retrovisore pendono un santino e una coda di scoiattolo. Ti accorgi che ti sto guardando, allora sorridi tronfio e dici: 


-Bella bestia vero? Farà duecento chili, l’ho inseguito per sei ore fino a Chisum Creek, quando lo vedrà mia moglie gli prenderà un colpo. 

-Già.
Sorrido come peggio non si potrebbe. 

Poi dai una boccata alle tua stramba sigaretta gialla, stretta nei tuoi denti gialli e dici :
-Ci si vede allora. 

- Sicuro.

Entri in macchina, giri la chiave e ti immetti nella statale perdendo fango dal battistrada. Ti seguo.


Lunedì 23 giugno


Ho il fiatone, il rifugio è ad un ora e mezza di cammino dall’ingresso del parco. Lo zaino pesa poco, ho poche cose dietro, per lo più biscotti e roba liofilizzata. L’edera s’è mangiata mezza facciata e sulla veranda ci sono merda di pipistrello e muschio, la chiave fatica un po’ ma alla fine apro. Nel rifugio ci sono ragnatele, una vecchia macchina del gas e qualche pentola di alluminio, acqua corrente che sa di ruggine, un armadio con delle coperte che sanno di muffa e una scrivania senza cassetti. Il lavandino del bagno perde da sotto il sifone, come sei anni fa, apro la manopola della doccia e ne esce un rutto. Mi laverò a pezzi. Sopra il letto c’è la mappa del parco e i percorsi con colori diversi, nel comodino il tizio prima di me lascia gentilmente una copia di Hustler e una Bibbia. Metto il cambio pulito nell’armadio, e un libro di Carver sopra il comodino. La bombola del gas ringraziando iddio è ancora piena, accendo il gas e mi preparo un caffè che bevo in una tazza di latta. Poi chiudo gli occhi e mi ricordo di ieri.

-Te ne vai di nuovo?

-È il mio lavoro Selma, devo. Non uscirtene sempre con
questo tono del cazzo, come se me ne andassi in vacanza
ai Caraibi.

-Sei aggressivo, quando diventi così non lo sopporto. 

-Se evitassi di farmi assistere ogni volta a questa scenetta
patetica, potrei avere un tono più conciliante, tra coinquilini tra l’altro, mi pare fuori luogo, quasi grottesco.

-Coinquilini?

-È un anno e mezzo che dormiamo dandoci le spalle, e non parlo solo del sesso. Come vuoi che ci definisca. Comunque se volevi qualcuno che stesse a casa nei fine settimana dovevi metterti con uno come Randolph Stain.

-Randolph Stain è un coglione noioso.

-Si, ma lavora in un gabinetto di analisi e non fa il fotografo per il National Geographic. Quindi è a casa tutte le sere , i sabati, le domeniche e tutte le feste comandate. E sono quasi sicuro che quel coglione noioso con sua moglie ci scopa.

-Che vorresti dire?

- Quello che ho detto, che certe storie dovrebbero finire esattamente come sono cominciate, nel letto, e la nostra non fa eccezione mi pare. 

-Avevi detto che non saresti ripartito prima di quattro settimane, è anche il compleanno di Bud te lo ricordi? E tutto questo per un cazzo di cervo. Hai 48 anni, c’è un tempo per ogni cosa. La tua famiglia, per esempio.

-È un cervo bianco cristo santo, uno su un milione, un’occasione unica, possibile che non lo capisci? Per non parlare dei soldi. Ma certo che no, te non capisci, come puoi rinunciare al tuo giochino preferito, i sensi di colpa. Il compleanno di Bud.


Mi sveglio e ci metto parecchi secondi per ricordarmi dove sono. è notte fonda, mi sembra di sentire rumori dalla veranda. Prendo un coltello dal cassetto sotto il lavabo e apro la porta. Il fiato si gela all’improvviso e a parte i grilli e la merda di pipistrello, non sembra esserci altra forma di vita. L’ombra scura in fondo alla radura è il bosco, io ancora non lo so, ma mi stai guardando.

Martedì 24 giugno

Alle sei sono già in cammino. L’ultimo avvistamento è stato a Chisum Creek, dal rifugio sono quasi tre ore. Ho la macchina fotografica al collo e una moleskine con mezza matita nella tasca di una vecchia giacca militare. Il bosco si infittisce rapidamente, fa freddo anche se siamo quasi a luglio. Dopo un’ora mi fermo, mangio una barretta al gusto di cartone e nocciola e bevo acqua per dimenticarla. L’odore acre che mi prende alla gola è inconfondibile, lo sterco potrebbe essere anche di un lupo o di un orso, ma frugandoci con un ramoscello trovo tracce di foglie verdi e semi, magari ci siamo. Magari. Sempre ammesso che non sia un daino o un capriolo. Dopo due ore di cammino trovo altre tracce vicino a un piccolo ruscello e la sensazione di essere osservato mi sorprende, inattesa. Mentre mi piego a scattare foto ad alcune impronte, alzo la testa in tempo per sentire lo scricchiolio di piccoli legni e foglie secche calpestate, il sole è alto ora. 
Apro lo zaino e tiro fuori le due sacche di stoffa con grano maturo ed avena e li dispongo in piccoli mucchi a distanza di alcuni metri. Posiziono il cavalletto e la macchina in una zona ideale tra un grosso fusto di larice e alcune rocce ricoperte di muschio scuro, tiro fuori un telo mimetico con delle finte foglie cucite sopra e mi ci infilo sotto, il telo ha dei fori per gli occhi e per la macchina fotografica, se non mi ha già visto o sentito, potrei anche essere scambiato per un cespuglio. Ora sono pronto, posso fare quello che so fare meglio, aspettare. Sento solo il mio respiro e il rumore dell’acqua. Mi viene da pisciare. Come se qualcuno potesse vedermi, vado a farla dietro un grosso tronco marcio, e mentre mi volto chiudendomi la lampo mi accorgo che di due mucchi di grano non restano che pochi semi sparsi. Ora lo so, mi stai guardando.

Mercoledì 25 giugno

I colpi di fucile all’alba mi ricordano che la stagione della caccia è una presa per il culo, anche in un parco nazionale. Oggi le tracce sono più vicine, cammino per poco più di un’ora, il cibo che ho lasciato strada facendo deve averlo ingolosito e spinto ad avvicinarsi, lui, o qualunque cosa sia. Ieri tornando ho visto due daini, magari sono loro, cibo facile, come dargli torto. Continuo a sentirmi occhi addosso, la sensazione quasi dolorosa di essere fuori posto e poco meno che un ospite, i rumori che conosco bene, che so, diventano improvvisamente altro, dubbi. Mi giro continuamente e in ogni direzione, niente. Ma mi guardi, lo so. Dispongo i mucchi di grano e avena in una zona leggermente pianeggiante, questo mi permetterà di stare più comodo e fare delle foro decenti. Poi mi copro con il telo e aspetto. Le ginocchia mi fanno un male cane, l’umidità mi ricorda che c’è un tempo buono anche per scattare foto. Magari ha ragione Selma, magari. 
L’ombra bianca attraversa l’obbiettivo come un fantasma. 

Tolgo di scatto il telo dalla mia testa, alcuni uccelli come per un accordo non scritto scattano insieme oltre le cime degli alberi, il cavalletto cade. Bestemmio. Raccolgo la macchina, è ancora intatta, piego il telo. Il grano è sparito. Un’ombra bianca tra i rami, magari ho visto male, magari è una lince, magari.

Giovedì 26 giugno

Mentre mi alzo cigolo come un relitto, quella del led dell’orologio per ora, è l’unica luce che vedo. Stanotte è piovuto a lungo, ho sentito il picchiettio sul tetto e sulle finestre, ho dormito vestito e male. Bevo un avanzo di caffè di ieri sera mentre guardo gli ultimi scatti. Impronte sulla rena del ruscello, sterco vicino a un masso, due marmotte che si accoppiano, una falco pellegrino troppo lontano per non sembrare un corvo, ancora sterco ma stavolta sotto un acero. Niente. Probabilmente ha ragione l’editore, ogni tanto in qualche parte del mondo qualcuno vede quello che vorrebbe vedere, quello che sogna la notte. Abbiamo bisogno di stupirci, di meravigliarci. E poi, il bianco fa sempre il suo porco effetto è il colore dei miracoli e delle spose in fondo. Non dei cervi. Peccato. Mi dico che è l’ultima uscita, metto la macchinetta al collo, chiudo lo zaino e apro la porta.


Sei davanti a me, a non più di dieci metri, fermo in mezzo alla radura, mi ricordo che ho il multiscatto e premo. Non sei spaventato né sorpreso, semplicemente mi aspetti, immobile e imponente nella tua millenaria bellezza, immerso in un’aurora di lucciole impazzite. Una coscia guizza snervata da un insetto, è freddo, sul manto bianchissimo i segni delle battaglie. Provo a ricambiare il tuo sguardo fiero, a sostenerlo senza possibilità alcuna di vittoria perché è uno sguardo puro, senza giudizio. 
Quindi, alzi la gola al cielo e la sfianchi nel tuo grido di vittoria, immerso in un vapore denso e bianco. È l’urlo di un guerriero antico, l’ultimo della sua stirpe nobile, un sopravvissuto. E allora non ho scelta, faccio quello che farebbe chiunque altro davanti a un re. Mi inginocchio.

Venerdì 27 giugno


Un filo di fumo esce dal camino mentre fisso la tua casa per ore, fai avanti e indietro decine di volte da un casotto degli attrezzi tenuto insieme da pezzi di latta e filo di ferro. Preparativi per qualcosa, immagino. Poi, trascini il cervo con un argano elettrico dal cofano della tua auto fino a un tavolaccio basso sporco di sangue rappreso. Hai addosso un’incerata da macellaio, tiri fuori un coltello dalla lama lunga e liscia da un fodero con le frange che hai attaccato alla cintura. La pelle si apre come se fosse carta velina. Lo scuoi. lo fai da sempre, si vede. Ogni tanto ti fermi e ti asciughi il sudore dalla fronte, bevi birra. Poi separi la pelle dal corpo facendo attenzione a non rovinarla, la lasci ad asciugare su un filo insieme ad altre pelli di orso e lepre, la testa la lasci per ultima, probabilmente le vendi a qualche dentista che se la piazza in mezzo al salone della casa in campagna o sopra un caminetto. Chissà quanto ti daranno per una pelle bianca. Il resto lo tagli in decine di pezzi che chiudi in sacchetti di plastica che riponi ordinatamente in una ghiacciaia, roba che finirà frollata in qualche stufato della domenica mattina. Pulisci la lama del coltello sulla coscia e lo pianti nel legno del tavolo. Ora sono vicino abbastanza da sentire il tuo odore da animale braccato, la fatica e la paura sembrano avere lo stesso tanfo. Quando ti volti la sorpresa ti ruba il tempo necessario a capire che è troppo tardi. 
Il caos, governa questo spicchio di mondo. Ne sono certo. E gli incontri casuali ne sono la dimostrazione, te per esempio, avresti fatto meglio a fare il pieno stamattina.

-Ci si vede allora. Non rispondi.

Sabato 28 giugno

Dormo a scatti, mi sveglio alla stazione di Heddonfield con un fischio di treno a vapore nelle orecchie e una tizia vestita da Miss Marple che mi chiede se il posto a fianco è libero. Piove, entra gente che odora di tabacco e plastica. Ho la macchinetta fotografica ancora al collo, accendo. Impronte sulla rena del ruscello, sterco vicino a un masso, due marmotte che si accoppiano, una falco pellegrino troppo lontano per non sembrare un corvo, ancora sterco ma stavolta sotto un acero. Poi, solo una trentina di scatti mossi della radura vuota che guarda verso il bosco, alberi, nebbia e una manciata di lucciole. Di te, nessuna traccia. Probabilmente ha ragione l’editore, ogni tanto in qualche parte del mondo qualcuno vede quello che vorrebbe vedere, quello che sogna la notte. Abbiamo bisogno di stupirci, di meravigliarci. E poi, il bianco fa sempre il suo porco effetto, è il colore dei miracoli e delle spose in fondo. Non dei cervi. Peccato. Alla stazione, devo ricordarmi di prendere un pensiero per Bud.