lunedì, settembre 11, 2017

[volevo essere le tue gambe]

Un noir scritto di domenica pomeriggio.

Ti cade il gelato dagli angoli della bocca, lo raccolgo con un cucchiaino e te lo ricaccio dentro. Hai le braccia lungo i fianchi e la testa inclinata su una spalla, gli occhi fissano un punto lontano, l'ultima immagine sulla tua retina è una conchiglia bellissima. La signorina alla cassa mi guarda con tenerezza, allora ti pettino guardandoti con gli occhi dei cani e la stronza va in brodo di giuggiole dentro la sua divisa rossa macchiata di lampone e cioccolata. Pago, spingo la tua sedia a rotelle fino alla porta a vetri.                                        
-Credevo ti piacesse il gelato, cazzo.                                                                                    
Quando usciamo dal centro commerciale è quasi aprile, ti alzo il bavero del giaccone. 
-Non prendere freddo, amore.
Alla pompa di benzina metto 20 euro, tutto quello che mi rimane in tasca. Ho speso il resto al ristorante, tu non hai toccato cibo e non sai che pena si prova a chiedere davanti a un piatto di mazzancolle fredde e ad una sedia a rotelle in fibra di carbonio “Non mi ami più?”. Avrei voluto una risposta qualsiasi. Chi tace acconsente. Ti accendo una sigaretta mentre torniamo a Roma. Quando arriviamo sotto casa, dormi, o forse fai finta, ti tolgo la cintura di sicurezza e soffio via la cenere dal tuo maglione.

Mentre ti allargo le gambe immobili Hai lo sguardo al soffitto, ti abbasso gli slip, ti frugo come un ladro. “Ti piace?” non rispondi, mi slaccio i pantaloni. Sei asciutta e mi fa male, me ne frego, e continuo a sbattere. Tu guardi oltre le mie spalle, come sempre, mentre la mia saliva scivola sul tuo collo, dietro l’orecchio, sulle tue guance. Un attimo prima di venire ti guardo negli occhi e dico qualcosa che ora non ricordo. In bagno ti aiuto a lavarti, l’acqua è fredda e tu non fiati, appoggio la mia fronte alla tua tempia, cerco una complicità che non vuoi, ti cade la testa sull’altra spalla. Piango.

Sei dall’altra parte del divano, a due, forse trecento metri da me. Hai i riflessi azzurri della televisione sulla faccia, qualcuno canta. Alle tre meno un quarto mi sveglio di soprassalto, con un fischio alle orecchie. Alzo la cornetta e faccio un numero a caso.

-Pronto?...

Quando bussano alla porta, dallo spioncino vedo solo un occhio cerchiato e il ficus sul pianerottolo. Apro. 
-Lei è il signor D’anza?

-si? 

-Sono il commissario Caponegro, ci ha chiamato lei un ora fa...

-Ah, si, entrate, solo il tempo di vestirmi.

Aveva scelto i sassi piatti e lisci con cura in mezzo alla sabbia e alle ossa bianche dei dinosauri .C'erano alghe scure come capelli incastrati nello scarico. Poi li aveva fatti saltare come ragni d'acqua, fino all'orizzonte. "...è facile, guarda" e aveva tenuto il baricentro basso, davanti alla noia della ragazza seduta su una coperta a quadri. 
-Allora? 
Lo disse piano scansando un guscio di granchio con la punta di una scarpa. 
- Allora cosa? È finita.
Mentre stringeva la sciarpa intorno al suo collo tenendola ferma con un ginocchio, si guardò intorno, in mezzo ai ciottoli un triciclo senza una ruota e un preservativo nella risacca come una medusa. Finché non smise di respirare. A lei uscirono un po’ di lacrime e non era tanto il dispiacere per l'addio, ma il sale nella bocca, si, e pure un poco per il freddo. Dopo le aggiustò la giacca e la mise seduta. Le tolse le scarpe, sistemandole bene i piedi, uno vicino all’altro. Tolse il blocco alle ruote e riprese a spingere la sedia a rotelle 
-Andiamo a fare una passeggiata L'aria di mare ti farà bene, vedrai. 
Poi si diressero verso il centro commerciale.