lunedì, gennaio 22, 2018

[ king kong ]


"Gli aeroplani c'è l'hanno fatta!"

" Non sono stati gli aeroplani, è la bella che ha ucciso la bestia."

I finali di certi film sono come i vecchi amici, li trovi sempre lì anche dopo una vita che non li vedi. Anche se Ruben Caponegro in fondo sperava sempre, e questa volta non aveva fatto eccezione, che il film finisse in modo diverso, sorprendendosi sempre per quel senso di sofferenza e ingiustizia un poco infantile che lo attanagliava ogni volta che questa speranza veniva delusa. La prima volta che lo aveva visto aveva sei anni e non lo aveva più dimenticato.

La domenica il padre lo portava al cinema Due Allori, una terza visione a via Casilina che faceva film vecchissimi. Lì, aveva visto tutti i Tarzan di Johnny Weissmuller e Gordon Scott e quella domenica davano “Il corsaro dell'isola verde” per la sesta volta, ma dopo dieci minuti la pellicola cominciò a fare bolle rossastre fino ad inghiottire bruciandolo per sempre il primo piano di Burt Lancaster in un buco nero. Un tizio alto come come una villetta a due piani disse “Ao' se volevo 'na grigliata mista annavo in trattoria...” poi, dopo altri dieci minuti di vana attesa si alzò e schiodò la quarta fila per intero nel tentativo di lanciarla, pubblico compreso, oltre la galleria in una pioggia di popcorn, parrucchini e bestemmie. Alla sommossa che seguì in sala di lì a poco il proiezionista rispose prontamente, prima che qualcuno decidesse di farsi giustizia da solo impalandolo pubblicamente, piazzando sul proiettore la bobina di King Kong, un vecchissimo film in bianco e nero degli anni trenta.

Quando tornò il buio in sala, avvertì quel nodo allo stomaco che lo prendeva ogni volta che cominciava uno spettacolo, una piccola emozione che non lo avrebbe mai abbandonato, nemmeno da adulto. E dopo quella proiezione molte cose non furono più come prima.

Quando la mano del gorilla aveva mollato la presa dalla cima dell'Empire State Building ed era precipitato nel vuoto come un fantoccio di pezza, si era alzato di scatto in mezzo alla sala gridando “assassini!!!” tutti avevano riso, e lui, non riusciva a capacitarsi nel suo cuore di ragazzino di come quella mostruosa ingiustizia non venisse condivisa dal mondo intero, gelataio compreso. Anche se uscendo dalla sala fu quasi sicuro di aver visto l'energumeno che aveva schiodato la quarta fila, uscire di soppiatto e scomparire dietro una tenda rossa con gli occhi lucidi.

Mentre Camilla agitava il termometro, Caponegro pensò che nelle ombre morbide del bianco e nero c'era tutto lo spazio possibile da lasciare alla fantasia, niente era più così netto. Probabilmente la febbre non lo aveva aiutato nemmeno stavolta a tenersi lontano dalle domande sbagliate, domande senza nessuna risposta come: “Perché un gorilla di quindici metri dovrebbe sacrificare la sua libertà e la vita stessa per una bionda svampita? Lui lo avrebbe fatto? ”Trentottemmezzo, cazzo. E perché non ho fatto il vaccino?" Fu l'ultima domanda senza risposta per quella notte. Poi scivolò in un sonno frammentato e sudaticcio dove sognò ininterrottamente di salire le scale di un enorme palazzo disabitato senza riuscire mai ad arrivare in cima. Camilla di tanto in tanto gli appoggiava le labbra sula fronte, e lui, faceva finta di non svegliarsi. 

 2

-Alla terza vai giù, non alla quarta né alla seconda, alla terza. Nun fa come l'artra vorta, o non te la cavi co' du' dita rotte...hai capito che ho detto Rocco? Quante so' queste?

Erano tre. Subito sotto il naso. Rocco Proietti detto Carnera guardava le dita di Gino Stura detto "Er persiana" le vedeva un poco sfocate, ma era sicuro che fossero tre, anche perché le altre due gliele aveva staccate Ciro Sarnataro quando stava ancora nel giro del contrabbando. Che il Persiana ci aveva il vizio del fumo un poco pronunciato, diciamo. Nell’ultimo incontro doveva andare giù alla seconda, ma aveva deciso che era meglio alla quarta, per rendere la cosa più credibile e poi, soprattutto, perché perdere gli faceva girare i coglioni anche se era il suo lavoro, in fondo. Qualcuno gli fasciava la mano destra, mentre nella sinistra avevano già infilato il guantone, altre due mani gli massaggiavano le braccia, sulle spalle aveva appoggiata una casacca rossa coi bordi dorati mangiata dal sudore, sulla schiena stava scritto in rilievo “Carnera”. Proietti non ci sentiva bene da un orecchio, durante un incontro per il campionato italiano nel '73, gli aveva sfondato il timpano Mario Proceno detto "Pendolino" per via del gancio sinistro che quando arrivava a destinazione nella migliore delle ipotesi era un binario morto. Infatti. Alla sesta ripresa aveva sentito un fischio e aveva pensato che fosse il diretto per Pisa che prendeva ogni volta che andava a trovare suo fratello. Il paradenti era finito addosso a una tizia con la pelliccia di zibellino in prima fila, le ginocchia avevano ceduto di schianto, l'arbitro aveva contato un'eternità, lui non sentiva più un cazzo di niente però, mentre una scia di vernice rossa era colata giù dall'orecchio sciogliendosi in mezzo al sudore. Era andato al tappeto per la prima volta, e capì solo dopo, che non si sarebbe rialzato mai più. E infatti per andare giù lo pagavano bene, si era comprato due stanze e un bagno al Mandrione, e pure un cane, pensa.


Trentotto. De simone lo aveva chiamato che aveva appena preso sonno e sognava cavalli a dondolo in mezzo ai brividi. “De Simone, che cazzo succede mo’? Ma nenache quando sto a letto con la febbre riuscite a non rompermi le palle?” Succedeva che Rocco Proietti detto “Carnera”,pugile fallito, un metro e novantotto per 142 chili stava sul tetto della discoteca “Il pettirosso” tenendo in ostaggo una prostituta moldava di 22 anni, pare, battendosi i pugni sul petto e gridando come un forsennato. Il palazzo era già circondato da una mezz’ora buona e il questore Santolamazza per non saper né leggere e né scrivere, aveva chiamato anche dei tiratori scelti che in certe situazioni “non si sa mai”.

-E mi rompi i coglioni per uno scemo che strilla sul tetto di un palazzo? Chiama Sellerio, che tanto non ci ha un cazzo da fare dalla mattina alla sera quello...

- A commissà, Sellerio è in licenza, gliel'ha firmata lei, e poi....

E poi al primo piano, negli uffici, avevano trovato Gino Stura detto “Persiana” con le braccia spezzate e il collo girato come una bambola di pezza, un buttafuori con la testa incastrata nella tazza del cesso, una prostituta svenuta e un altro paio di cadaveri non meglio identificati in giro per il locale, e se ancora non vi pare abbastanza, Il boss Luca Orsini, detto “Il Conte”che invece, era stato trovato nudo come mamma l'aveva fatto, impanato di cocaina nel suo letto di seta con lo sterno sfondato. Una mattanza in pratica.

Camilla entrò con un piatto di brodo caldo tra le mani. Caponegro si alzò dal letto cigolando come un relitto e poi bestemmiò, che le rotture di palle non erano ancora finite, ne era sicuro. Mentre si abbottonava la camicia scura, si accorse che gli tirava sul davanti.

-Sembro un gorilla, dovresti mettermi a dieta come fanno tutte le mogli del mondo.

- Non siamo sposati, e poi, se perdi un etto io ti ammazzo, sappilo.

- Ti piacciono i gorilla?

- Mi fai sentire protetta e poi mi piace sentire qualcosa sotto le dita.

- Ti piace la ciccia, allora.

- Anche…

- Pervertita.

- Me lo fai il nodo alla cravatta?

- Possibile che tu ancora on abbia imparato?

Lo sapeva fare benissimo, ma gli piaceva farselo fare da lei, che dopo, gli passava una mano sul petto in una larga carezza.

-Ecco. Disse legandosi i capelli dietro la nuca con una matita.

- Che stai disegnando?

- Una favola per bambini, la bella e la bestia. 

 3

-E basta Persià, che me lo deconcentri, Rocco sa quello che deve fare, vero Ro’?

Il Ganascino sarebbe stato niente, ma la puzza di sigaro no, quella faceva venire il vomito. "Il Conte" portava un cappotto grigio sulle spalle con una cosa morta intorno al collo. Lì erano tutti morti in verità, come Mazzinghi e Tiberio Mitri nei manifesti alle sue spalle, solo che ancora non lo sapevano. "A Rocco, te piace questa?, stasera abbiamo gli extra, fai un bel lavoretto e te la porti a casa..."

La bionda al suo fianco era vestita di rosso, aveva le gli occhi cerchiati e bassi, le braccia viola. il cerone non le avrebbe mai coperte abbastanza. “Visto che robbetta? Dì, quanti anni c'ha secondo te?” Carnera la fissò negli occhi pesti per qualche secondo e disse sottovoce “Ma che cazzo ne so, diciassette, diciotto?” Il conte mostrò i denti gialli e rise. “Ecco, è per questo che me la faccio pagare bene, sembra più piccola, c‘è gente che paga un fottio di soldi per scoparsi delle minorenni. Comunque te fa il bravo e stasera Anna te fa divertì, vero Anna?”

Fece di si con la testa, ma carnera era già nel lungo tunnel buio che portava dallo spogliatoio al ring, sciolse le braccia con pochi pugni nel vuoto mentre indistinto arrivava il rombo del pubblico. Un brusio confuso nella luce accecante del ring. Nestor Baharami era già sotto i riflettori saltellando come un ballerino, qualcuno gli aveva detto che viaggiava dritto verso il titolo europeo dei mediomassimi e che qualche vittoria facile avrebbe aumentato il bottino di vittorie per lui e quello delle casse per il principe. Un tizio grosso con la pancia fuori dalla maglietta gli diceva di tenere la guardia alta e di non fare lo stronzo “Quello c'ha quarant'anni ma mena ancora come un fabbro ferraio, fidate.” in sala c'erano un centinaio di persone, “Meglio dell’ultima volta” pensò.

Aveva pisciato sangue. Meno del solito comunque, tre riprese sono poche anche per quello. Con le mani nel secchio del ghiaccio, aveva cercato di ricordare come fosse l'odore del pane, non ci era riuscito, non riusciva più a sentire nessun odore in verità, più o meno da quando un certo Jarowszeck gli aveva frantumato il naso alla sesta ripresa dell'europeo dei mediomassimi nel '66, e dopo, glielo avevano rotto almeno una decina di volte ancora. A volte, per strada, gli pareva di sentire odore di pasta al forno, o quello dei caffè che beveva al bar la mattina, o il profumo di sua madre anche, sbagliava. Era sporco di vasellina e saliva, si era cacciato cinque aspirine in bocca e poi si era infilato sotto la doccia. Mentre si infilava un cappotto con le maniche logore il Conte era entrato con una bottiglia di spumante in una mano e la bionda nell'altra.

- Eccolo qui il nostro campione! Il tappo partì e un poco di spumante scivolò terra.

- Bravo Rocco questi so' pe' te, so' cinque, te fidi no?...

Rocco li aveva messi in tasca senza rispondere, poi aveva chiuso l'armadietto, preso la bionda per mano ed era uscito dallo spogliatoio.

Si erano fermati in una rosticceria, avevano mangiato pizza, supplì e bevuto birra svanita. Rocco aveva staccato con mestiere l’etichetta dell’acqua minerale, Anna invece aveva fatto a piccoli pezzi una tovaglia di carta grigia su cui il proprietario aveva scritto a penna un conto. Se ne stettero così, uno di fronte all’altra senza dirsi una parola finché tutte le sedie non furono messe una sopra l’altra in alte pile in fondo al locale, il pavimento lavato, le luci spente e la serranda abbassata per metà.

Dopo gli incontri non gli si rizzava mai. Anzi, ora che ci pensava non gli si rizzava da un pezzo. Anna lo aveva carezzato piano sui segni rossi e spessi che aveva sui fianchi e sulla schiena, Poi gli aveva baciato le ferite sugli zigomi e intorno agli occhi, la bocca era pesta e gli facevano male i denti, sussurrava cose in una lingua incomprensibile, ma soffiate in quel modo sembravano cose belle, e qualsiasi cosa stesse dicendo, comunque, era per lui. Era rimasto seduto sul letto, immobile, fissando qualcosa fuori dalla finestra e aspettando che succedesse qualcosa. Non successe niente. Lei lo tenne stretto a lungo cantando qualcosa sottovoce, lui le chiese scusa, poi si addormentò.

L’aveva fissata per un’ora buona, stava rannicchiata nell’incavo del suo braccio facendo piccoli scatti di tanto in tanto. Aveva avvicinato il naso alla sua guancia e gli parve di sentire l’odore di buono dei bambini. O almeno così lo ricordava. Una piccola vena sulla tempia batteva appena, nessun rumore, solo un respiro leggero, un attimo di innocenza voltato sul fianco dei sogni. Eppure bastò, credetemi sulla parola.

Al mattino, mentre Anna dormiva ancora, scese dalla parrucchiera all'angolo e le fissò un appuntamento per il primo pomeriggio, le avrebbe fatto tingere i capelli e cambiare taglio magari. Comprò anche un paio di occhiali da sole e dei foulard colorati. Per i vestiti invece fu più complicato, quando la commessa del negozio chiese “Che taglia?” Rocco fece un gesto con le mani che la ragazza riuscì ad interpretare, Dio solo sa come.

Quando entrò nella cabina del telefono e infilò i due gettoni che aveva in tasca aveva deciso da un pezzo che l'avrebbe messa sul diretto per Pisa delle 07:23. Suo fratello Marcello aveva un Caffé a Barbaricina, l’avrebbe assunta come barista e ospitata per qualche giorno, giusto il tempo di far calmare le acque e il conte, soprattutto, che a perdere una delle sue ragazzine sicuramente non avrebbe avuto troppo piacere, diciamo. Comunque, era sicuro che Marcello non avrebbe fatto nessuna obiezione.

-Rocco damme retta, lasciamo perde, questa farà sicuramente dei caffè de merda, come faccio ? Non è che ti improvvisi barista dalla mattina ala sera, così me se svuota il bar, io c'ho una clientela eccheccazzo, magari poca ma ce l'ho, no, no, no, levatelo dalla testa, senza contare che non saprei nemmeno come spiegarlo a mia moglie.

-Marcé, tu moje t’ha lasciato nel ’72 e tu fai già dei caffè di merda. Nessuno si accorgerà della differenza, credeme. Senza contà che se non m’aiuti io te spacco er culo. Mamma come sta Marcè ?...

-E’ morta due anni fa…

- Meglio, così se te scanno, nessuno me fa’ venì i sensi de colpa, se chiamano così?

– Si, se chiamano così. A che ora arriva questa?

– Questa sechiama Anna.

– Va bene, a che ora arriva questa Anna?

- 11:24, Grazie Marcè.

- Ma vaffanculo Rocco.

Che poi, sul treno non ci sarebbe mai salita, non quel giorno almeno. Prima di tornare a casa era passato al bar Giraldi a prenderle dei cornetti caldi e un cappuccino. Mentre aspettava che il barista riapparisse dal vapore della gaggia, un tipo storto con un pacchetto di sigarette cacciato nella manica della maglietta si accoppiava con un flipper. Il record diceva “1.000.000” lampeggiando proprio in mezzo al petto di una tizia con un costume da bagnina e la pistola in mano. “...li mortacci tua, novecentonovantanovemilaennovecento volte, famme n'caffè va'..” 

Cercò di ricordarsi da quanto tempo non facesse qualcosa per qualcuno che non fosse se stesso o il cane, ma niente. Salì le scale fischiettando qualcosa senza senso, aprì la porta spingendola con un avambraccio e le chiavi in bocca. Quando entrò in camera , Anna, non c’era più. 

 4

“Il Pettirosso” era un palazzo osceno in vetro e cemento, un cubo luccicante probabilmente abusivo. Era stato un centro cucine, una concessionaria, una banca e persino la sede di una tv privata che un noto uomo politico aveva letteralmente regalato ad una zoccola altrettanto nota. Poi il noto uomo politico era finito a Regina Coeli per corruzione e collusione con esponenti di svariate cosche mafiose, fu freddato sul portone di casa durante un permesso per Natale. Ora era un frequentatissimo locale notturno dove la Roma bene faceva la fila per farsi vedere dai paparazzi e qualche tv locale. Vi si trovavano senza nessuna soluzione di continuità: papponi, trafficanti, ultimi esponenti di qualche famiglia nobile decaduta, mignotte da un milione a sera, assessori corrotti, un vicesindaco, ministri e sottosegretari di ogni colore ed orientamento politico, camorristi, attricette di serie b e strani finocchi vestiti da donna, e ovviamente, eroina e cocaina come se piovesse. Il classico locale di copertura per attività illegali e ben note alle forze dell’ordine, in una città spartita a fette come una torta dove mangiavano in tanti, forse troppi.

Rocco aveva aspettato fuori, pazientemente. Aveva visto le ore e un fiume ininterrotto di gente scorrere dentro e fuori dal locale stordita dall’alcol e dalla cocaina, aveva ascoltato la musica spegnersi, aveva visto sparire in fondo alla strada le voci e le risate di questi fantasmi barcollanti, aveva atteso che un tizio appoggiato a un lampione finisse di vomitare tutto quello che aveva in corpo mentre qualcuno gli teneva la fronte, aveva aspettato che le spalle di tutte quelle donne vistose venissero coperte da pellicce e dai soldi, che pure, sembravano non scaldare mai abbastanza. Aspettò ancora, almeno finché non vide restituire le chiavi dell’ultima auto custodita a vista, la Jaguar C-Type 1951 del barone Musacchi Storti, una dea blu pervinca con trent’anni portati come meglio non si potrebbe, in mano ad un tizio che ne aveva settanta portati di merda, invece. Rocco spinse la porta a vetri ed entrò. Il conte dormiva in un appartamento al primo piano, bisognava solamente arrivarci, pensò. All’ingresso uno dei due buttafuori stava per lasciare il campo di battaglia e tornarsene a casa. Sbagliava.

- Ao, ndo cazzo vai te? Non lo vedi che è chiuso?

- No. Dov’è?

-Dov’è chi?

-Lo sai chi.

Il secondo buttafuori doveva aver sentito il rumore di cocci e vetri rotti, entrò proprio mentre Rocco teneva la testa dell’altro nella tazza del cesso e l’acqua diventava un fiume rosso porpora. Teneva un coltello in mano fissandolo con gli occhi che facevano piccoli scatti di lato a destra e a sinistra. Cercava un varco, lo spazio giusto per colpire. Era più giovane, più veloce, ma sapeva cosa aveva da perdere. La differenza era tutta lì, Rocco la conosceva bene, stava in quella frazione di secondo che passa tra una buona idea e un’azione, in quel margine infinitesimale in cui si fa spazio la paura o il dubbio. Lui non ne aveva mai avuta, non sul ring, non quella sera comunque. Il braccio girato dietro la schiena aveva fatto un suono sordo e la lama era entrata in mezzo a due costole come in un panetto di burro. Gli aveva premuto la mano davanti alla bocca mentre gorgogliava finché non aveva sentito le gambe piegarsi e lo aveva lasciato scivolare a terra. Uscendo si accorse che il primo stava bofonchiando qualcosa nell’acqua del water, da cui salivano strane bolle rossastre. Rocco tirò lo sciacquone e uscì.

Con il “Persiana” era stato più facile, stava contando l’incasso della serata nel suo ufficio al primo piano. Rocco si era fermato sulla porta e lo aveva salutato.

- Ciao Gì.

-A Rocco, ma che cazzo ce fai qua?

Carnera gli aveva preso il bavero del cappotto tirandolo verso l’alto e aveva detto:

-A persià, te lo chiedo 'na vorta sola, dov’è?

Persiana aveva pensato bene di ridere gridandogli poi qualcosa in faccia con l’alito marcio di tabacco. Cercare di tirare fuori la pistola dal cassetto distraendolo, sul momento, gli era parsa una buona idea. Sbagliava. Rocco aveva afferrato i polsi serrando i pugni in una morsa, poi li aveva piegati in basso, di scatto. Lo aveva guardato rotolarsi sul pavimento come un capitone nel secchio, bestemmiare e poi vomitare, anche.

-Il dolore fa di questi scherzi, Gino.

Gli prese il collo con le mani e girò di scatto. Aveva fatto lo stesso rumore delle cassette marce ai mercati generali. Il sigaro era rotolato a terra lasciando una scia di fumo sottile. Lo aveva raccolto e glielo aveva ricacciato in bocca, incastrandolo tra i denti.

Mentre saliva la rampa di scale si accorse che i passi sulla moquette non facevano rumore. Scivolò lungo il corridoio rosso fino alla porta socchiusa della stanza di Orsini. Il “Conte” era a letto con due ragazze, aveva una vestaglia rossa slacciata sulla vita, in controluce il ventre enorme si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro pesante. Rocco prese una sedia appoggiata alla parete, la girò verso il letto e ci si mise a cavalcioni, fissandoli per qualche istante. La rossa al suo fianco aveva ancora il suo uccello morto in mano. L’altra invece, una cinese col naso sporco di cocaina, si era svegliata alzandosi di scatto squittendo e mettendosi con le spalle alla parete. Rocco portò l’indice alle labbra facendo lentamente di no con la testa. La cinese annuì strisciando verso la porta. Si attaccò alla bottiglia di spumante rimasta sul comodino dando due sorsate profonde, poi, pulendosi con una manica, versò tutto quello che rimaneva addosso al conte.

- Ma che cazzo succede?.....

-Dov’è?

-Rocco, Rocco, Rocco… ma che cazzo fai, tei piji la robba mia? Che fai, te metti a fa’ er benefattore? Te sei innamorato? Te sei intenerito Rocco? Solo perché t’ha fatto l’occhi dorci e 'na sega stanotte? Ma che nun ce lo sai che mignotta un giorno mignotta pe' sempre…? Eh Rocco? Che cazzo te sei messo in testa? Volevi fare l'eroe? Salvarla? Ma te sei 'n pugile fallito, un poveraccio, te non sei nessuno. Quella è robba mia, qui è tutta robba mia, pure te sei robba mia,lo capisci? Vai giù a comando Rocco, te lo ricordi si? Manco i cazzotti che dai so' tuoi, so' miei pure quelli, poro stronzo…”

Il conte, a differenza del buttafuori non aveva pianto, e forse, non aveva sentito nemmeno troppo dolore, non che gliene fregasse qualcosa. Rocco però, alla zoccola cinese non ci aveva proprio più pensato, ed era stato un grosso errore. Quando si era voltato per andarsene aveva sentito qualcosa di caldo esplodergli tra le costole. Quella addosso aveva solo una forcina di avorio bianco con due punte lunghe un palmo a tenerle ferma una crocchia nera e lucida come le penne di un corvo e invece di scappare, aveva deciso di sciogliersi i capelli e di piantargliela in un fianco. Rocco era ricaduto sulla sedia con una bestemmia, mentre il fiotto rosso tra le costole cambiava forma e colore e il suo fiato si faceva sempre più corto e amaro. “La pupa del boss …” Per un attimo gli venne da ridere mentre la cinese lo guardava tremando, cercando riparo, ora, nell'angolo più lontano della stanza, minacciandolo ancora con la forcina sporca di sangue, stretta nel pugno teso come fosse un coltello. L’ombra lunga di Rocco che si rialzava con un gemito, fu l’ultima cosa che vide quel giorno.

Ne aveva ammazzati sei, forse sette, provò a contare sulla punta delle dita, ma non era mai stato troppo bravo con i numeri e non riuscì a fare nemmeno un conto approssimativo su quanto si fosse guadagnato in anni di galera. Tre, quattro ergastoli magari. Uscì dalla stanza e salì al piano superiore, il sangue colava dal fianco impregnando i vestiti, si lasciò una scia rossa e scura alle spalle, sulle scale, davanti a ogni porta che trovava chiusa e che apriva con un colpo di spalla. Fuori da una porta aveva sentito piangere, Anna era legata ad un letto in una camera con altre quattro ragazze. Era una stanza vuota e sporca con due letti senza materasso. Su un mobile basso accanto al letto c’erano un cucchiaino, mezzo limone e diverse siringhe di plastica. La aiutò a rialzarsi, le tolse i lacci ai polsi e le mise il suo cappotto sulle spalle. Scese qualche gradino, poi sentì il rumore delle sirene in lontananza e un brusio indistinto di voci e flash di macchine fotografiche. Era in trappola.

“Sul tetto” disse, mentre sentiva le gambe andarsene per conto loro e un rombo sordo nelle orecchie. Anna lo sorresse come poteva. Usciti sul terrazzo l’aria gelida gli mangiò quel poco di ossigeno che gli era rimasto nei polmoni. Qualcuno doveva aver sentito le grida, il palazzo era circondato dalle volanti. Sembrava uno di quei film idioti che davano nelle seconde visioni, con le luci i poliziotti con il megafono e tutto il resto. “Mancano solo gli elicotteri” pensò.

Antonio Barrese fissava il tetto del Cardellino accarezzando il suo M16 come se fosse il suo cane da caccia. Antonio Barrese era un tiratore scelto e al commissariato Appio lo chiamavano tutti affettuosamente “il cecchino”. Il questore Santolamazza amava le “azioni risolutive” e in situazioni di questo genere i tiratori scelti li chiamava nove volte su dieci. Caponegro lo aveva salutato gentilmente mentre stava per spedire due tiratori sul tetto del palazzo di fronte.

-Barrese, che cazzo fai, questa non è Sarajevo, lo sai si? Già che c'eri potevi chiamare gli effe sedici o le truppe cammellate, oppure potreste usare il napalm e radere direttamente al suolo il quartiere, Che ne dici?

-Caponegro, tu ovviamente pensi di risolvere la questione, parlandoci immagino.

- Indovinato, adesso entro e provo a parlarci, te invece non muovi un dito finché non te lo dico io, che ogni volta che voialtri mi state tra i coglioni ci scappa il morto.

-De simone, tienimi la pistola, fai la cazzo di cortesia, io entro.

Rocco Proietti detto Carnera era appoggiato al cassone dell’acqua, dietro una fila di lenzuola a pois e perdeva sangue da un fianco che tamponava con una camicia. La ragazza sembrava sorreggerlo. Caponegro affacciandosi aveva alzato le mani vuote, e allargando la giacca aveva detto:

– Proietti, sono Caponegro del Commissariato Appio, sono disarmato....

– Pure io...

– Bene, perché non lasci andare la ragazza allora, io e te intanto ci facciamo due chiacchiere, che ne dici?

E allora successe una cosa che non aveva previsto, la ragazza si strinse alla vita del gigante che inutilmente aveva cercato di allontanarla spingendola verso Caponegro con una mano. Come se allontanarla, a quel punto della storia, significasse in qualche modo proteggerla. Per un attimo gli era parso di vederlo battersi i pugni sul petto in bianco e nero, circondato dai biplani.

– Se lo lascio andare lo ammazzano. Aveva detto lei con la voce tremula e le lacrime agli occhi. E allora capì che Anna, non era un ostaggio.

Che gran finale, si disse Rocco. Aveva guardato dentro al cappotto e aveva capito che era finita così, sul tetto di una discoteca, con le sirene, le ambulanze mischiate insieme alle voci della gente che indicava il tetto del palazzo illuminato a giorno dai riflettori delle televisioni, aspettando il colpo di scena, il gran finale e c'era pure il bravo poliziotto armato solo di buoni propositi. Che spettacolo. Le gambe non tenevano più e il fiato ormai era ridotto a un sibilo corto e doloroso.

– Ero bravo. Ho vinto 67 incontri per K.O. Poi ner ‘70 me so’ venduto er titolo europeo. Ma je menavo co’ ‘na mano sola a quel francese de mmerda, se solo volevo. Sedici milioni m’hanno dato. Me ce so comprato casa. Non è che c’hai da accende no?... Peccato. Nun ho manco dato da magnà ar cane, penserà che l’ho abbandonato, pora bestia.”

Caponegro aveva visto il lampo partire dal tetto del palazzo di fronte, un piccolo fiore azzurro tra i panni stesi e le antenne. Quando si era voltato, Proietti non c’era più. Era rimasto solo un poco di vento, tra le lenzuola a pois.

Mentre un tizio di Teleroma 66 cercava di cacciargli il microfono in gola, De simone gli andava incontro restituendogli la pistola.

-Commissario! Il tiratore scelto ha fatto un bel lavoro, però pure lei, ad andarsene sempre in giro disarmato....

-De simone ma che cazzo dici? Non sono stati i tiratori scelti, è stata la bellezza che ha ucciso la bestia. Ce l'hai un'aspirina?

Caponegro aveva aperto la porta del piccolo appartamento a Via del Mandrione, 623. Lui gli era venuto incontro scodinzolando, lo aveva accarezzato sulla testa. Un labrador nero sovrappeso e dal pelo lucidissimo. Aveva vuotato mezza busta di croccantini nella ciotola sporca, mentre gli agganciava il guinzaglio al collare lesse che sulla piastrina dorata c’era scritto “King Kong” .


- Andiamo a pisciare bello? E uscirono.